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Petrolio

Petrolio, Covid-19 e Cina. Tutti i dossier per gli Usa

Fatti, analisi e scenari sugli Stati Uniti fra petrolio, pandemia e Cina. Il Taccuino estero a cura di Marco Orioles

PREZZI NEGATIVI DEL PETROLIO? PER BLOOMBERG SE NE POMPA ANCORA TROPPO

Lo storico tonfo in territorio negativo dei Futures WTI della scorsa settimana contiene una lezione che l’analista Julian Lee ha messo nero su bianco ieri su un editoriale di Bloomberg News: c’è troppo petrolio in giro per il mondo.

È  a questo fattore, e non – come si è sottolineato da più parti nelle ore concitate in cui i Futures sono stati sull’ottovolante – all’esaurita capacità di stoccaggio nel territorio americano, che bisogna guardare per capire le radici di questa crisi senza precedenti del settore.

Si tratta, se possiamo metterla così, della vecchia storia del saggio che indica la luna e dello stolto che guarda il dito.

Qualcosa più, insomma, di una questione di prospettiva suggerisce che il crollo verticale dei prezzi del petrolio vada ascritto ad un’abbondanza di materia prima che non può che riverberarsi, ma solo in seconda battuta, sulle limitate capacità di stoccaggio di Paesi che di tutto quell’oro nero in questo momento non sanno proprio che farsene.

Per dirla con le parole di Lee, i prezzi in territorio negativo sono il più chiaro segnale che i mercati potevano fornire ai produttori per dir loro di smetterla di pompare petrolio dai loro pozzi.

L’analista, a tal proposito, ricorda che l’accordo sui tagli raggiunto a Riad il 12 aprile dai membri del resuscitato cartello OPEC+ – lo stesso su cui Donald Trump appuntò le proprie speranze prima di essere costretto dal tonfo dei Futures a varare aiuti di Stato per l’industria dell’Oil & Gas – deve ancora essere implementato da un buon numero dei suoi sottoscrittori.

Tra questi ultimi, peraltro, ci sono i due colossi petroliferi Arabia Saudita e Russia, che difficilmente – osserva Lee – faranno qualcosa prima che l’accordo entri ufficialmente in vigore il 1 maggio.

Nel frattempo, le petroliere continueranno a fare vela in direzione di acquirenti che non sanno più dove metterlo. Entro giugno, ad esempio, ben 51 milioni di barili provenienti da Arabia Saudita e Iraq faranno il loro arrivo negli States.

Arriveranno però in un paese che sta continuando malgrado tutto a pompare petrolio, sia pur con una riduzione non però consistente come la situazione richiederebbe:

fig. 1: Produzione petrolio negli Usa in bpd su base settimanale e mensile, 0ttobre 2019/aprile 2020 (fonte: Bloomberg su dati EIA)

E il problema non è solo ristretto ai confini degli Usa. Anche altri Paesi stanno cominciando a fare i conti con le sempre più striminzite capacità di stoccaggio e con i loro riflessi su titoli apparentemente solidi come il North Sea Brent.

Alcuni in verità stanno esplorando soluzioni creative: in alcuni paesi d’Europa ad esempio stanno ricorrendo alle chiatte, mentre la compagnia statale Naftogaz Ukrainy sta valutando di stoccare il proprio petrolio in una pipeline sottoutilizzata dove potrebbero trovare riparo fino a 35 milioni di barili.

Sono, direbbe qualcuno, pezze peggiori del buco. L’unica via d’uscita all’incubo dei prezzi negativi resta dunque quella indicata da Lee: tagli ancora più drastici alla produzione.

D’altronde, come diceva quel commediografo partenopeo che ci ha lasciato quattro decenni prima dell’emergenza Covid-19, “Adda passà ‘a nuttata”.

COVID-19 ARMA BIOLOGICA? NO, MA…

La portaerei Usa Theodore Roosevelt trasformata in micidiale focolaio del Covid-19 – con 840 marinai positivi, comandante incluso, su un equipaggio di 4.865, e l’imbarcazione costretta a sospendere bruscamente le attività e ad attivare le procedure di contenimento del contagio nel bel mezzo di una missione nel Pacifico – ha insinuato un sospetto micidiale nella comunità militare a stelle e strisce.

Il sospetto può essere compendiato in una semplice domanda che ha fatto da sfondo ad un breve approfondimento del quotidiano Politico: e se qualcuno, avendo appreso la lezione della portaerei, decidesse di usare scientemente il virus come micidiale arma biologica con il chiaro intento di mettere fuori gioco il nemico?

Se la comunità d’intelligence Usa, scrive Politico, ha già cominciato a fare l’elenco dei potenziali “bad actors” in grado di compiere una simile scelleratezza, il Pentagono si sta rapidamente adeguando pur nella consapevolezza, confidata al giornale da una fonte anonima del Dipartimento della Difesa, che lo scenario della weaponization del virus sia “ancora una preoccupazione minore”.

Certo è che c’è chi non prende la minaccia sotto gamba. “Un’arma biologica”, spiega ad esempio l’ex assistente Segretario alla Difesa per i programmi di difesa nucleare, chimica e biologica Anbdy Weber, “è qualcosa che non assomiglia affatto ad una munizione: è solo un patogeno”.

Un agente invisibile che ha il vantaggio di esistere in natura ma che difficilmente può essere maneggiato con perizia e in tutta sicurezza da gruppi minori. Un problema che invece potrebbe non sussistere nel caso di uno Stato-nazione dotato di un programma avanzato di armi biologiche – oltre che di scarsi scrupoli di tipo morale – in grado di intervenire sul virus per modificarlo ad hoc.

La minaccia intravista da Weber assume così la forma di innocue “bottigliette spray” con cui lanciare attacchi a sorpresa – e rimanere sostanzialmente ad assistere alle devastanti conseguenze, non esclusi i possibili effetti sulla propria stessa popolazione del cui destino gli attaccanti, nella loro follia, potrebbero del resto non curarsi.

Esperti di bioterrrorismo, a tal proposito, dubitano che ci siano governi a tal punto irresponsabili, ma hanno il dovere di segnalare – come ha fatto l’FBI il mese scorso inviando una nota a tutte le stazioni locali di polizia – che nel mondo non mancano formazioni e gruppetti estremisti non proprio con la testa sulle spalle.

Ha fatto molto scalpore, a tal proposito, l’informativa di polizia rivelata da ABC secondo la quale alcuni suprematisti bianchi in America si incoraggiavano a vicenda a diffondere il virus “tramite i propri fluidi corporali e le interazioni personali”, con l’intento di fare strage di ebrei e poliziotti.

Politico non ne fa il nome, ma un analista del  Council on Strategic Risks lancia un allarme ancora più inquietante: la possibilità che le conoscenze che si stanno man mano accumulando sul Covid-19 possano essere sfruttate da qualcuno per manipolare il virus e trasformarlo arma biologica. “In termini di bioterrrorismo”, osserva infatti l’analista”, il Covid-19 offre il vantaggio di essere “molto accessibile” grazie alla presenza di suoi campioni in innumerevoli laboratori in giro per il mondo.

Difficile, in tal senso, non ricordare la teoria circolata all’alba dell’emergenza – seppur presto screditata come una classica fake news – secondo cui il Covid-19 avesse il marchio di fabbrica di un laboratorio di Wuhan.

Per quanto priva di riscontri, l’ipotesi sembra destinata in ogni caso a scandire almeno nel futuro il lavoro di militari, analisti d’intelligence e funzionari della Difesa che, per dovere professionale, hanno il compito di contemplare ogni scenario.

VI SPIEGO PERCHÉ È FALSO CHE IL COVID-19 STRAVOLGERA’ IL MONDO: PARLA PELANDA

Quante volte, durante l’emergenza da Covid-19, abbiamo letto o sentito ripetere che “nulla sarà più come prima”?

Per quanto dotato di evidenza apparente, l’adagio che andò per la maggiore anche quando diciannove anni fa quattro aerei di linea dirottati dai terroristi islamici misero in atto un mega-attentato nel cuore degli Usa è per Carlo Pelanda uno slogan vuoto e per giunta fuorviante.

Per lo studioso che da quattro decenni coltiva le complicatissime equazioni della teoria dei sistemi, la verità è un’altra, ossia che il Covid-19 rappresenta un evento sì eccezionale, ma non tale dal devastare le nostre società e avviarle inesorabilmente a cambiamenti radicali e densi di incognite.

Una lunga tradizione di ricerche sui disastri ha dimostrato semmai che – fatte salve calamità quali guerre nucleari e biologiche – un sistema colpito da un fattore imprevisto come il Covid-19 ritorna presto al suo equilibrio precedente, anche se con l’unica differenza di sperimentare accelerazioni di tendenze preesistenti.

Nessuna rivoluzione all’orizzonte, dunque, ma consolidamento di processi già in essere di cui la disgregazione dell’Europa appare la più probabile insieme al proseguimento dello scontro frontale tra Usa e Cina di cui il Vecchio Continente rappresenta uno dei terreni oltre che la posta in gioco di questo emergente equilibrio bipolare.

Prof. Pelanda, dal punto di vista della teoria dei sistemi e delle ricerche sui disastri che li mettono sotto stress, come possiamo classificare l’evento Covid-19?

Partendo dai suoi elementi di base. Anzitutto, non è localizzato. È a bassa letalità, pur presentando alti tassi di contagiosità. Diversamente da ciò che si dice, non è una guerra. E non sembra poter durare a lungo: un anno e mezzo, massimo due, durante i quali peraltro interverrà la capacità di apprendimento dell’uomo.

A cosa lo possiamo paragonare?

La comparazione più vicina non è con eventi come i terremoti, ma con la contaminazione radioattiva. Che nella scala che usiamo non si pone al livello massimo, dove troviamo invece la guerra nucleare, seguita da quella biologica. Si tratta di pericoli che non possono nemmeno lontanamente essere paragonati al Coronavirus. Questo è un tipo di disastro che ha sicuramente effetti pesanti da un punto di vista economico, ma non è tale da rompere la struttura di un sistema sociale.

Prevale infatti quello che la teoria e lei stesso definite “principio di continuità”.

Esattamente. Questo principio fu sviluppato per i disastri territoriali, ma le ricerche successive ne hanno confermato la validità anche in eventi più catastrofici quali terremoti o tifoni. In tutti questi casi si vide come il sistema, dopo alcuni trend specifici di ricostruzione, riprendeva le stesse tendenze di prima, anche se con accelerazioni di tendenze preesistenti.

Spieghi meglio quest’ultimo punto per favore.

Il fenomeno dell’accelerazione nei disastri è abbastanza simile a quello che si vede durante le guerre. Le guerre non inventano le cose, ma accelerano quelle che c’erano già. La seconda guerra mondiale ad esempio l’abbiamo cominciata con il biplano e terminata con il jet. Le guerre sono acceleratori molto forti perché i governi hanno assoluto bisogno di garantirsi la superiorità. Però anche i disastri possono rivelarsi dei potenti acceleratori. Quel che più importa, dal punto di vista dello scenarista, è capire se si stia creando qualcosa di nuovo, e sia dunque necessario aggiungere una cella alla grande matrice, oppure se c’è solo un’accelerazione di qualcosa che era già presente.

Uno di questi fenomeni che accelereranno è la sorveglianza di massa, magari alla cinese?

Senz’altro. L’uso maggiore di tutto il potenziale elettronico era una tendenza già in atto che ora proseguirà a ritmo intensificato, anche se speriamo naturalmente non con le stesse caratteristiche cinesi. Bisogna dire, d’altra parte, che la tecnologia che stiamo usando in questo momento è tutta americana, pensi a Zoom o a Cisco. L’industria tecnologica Usa prevale anche stavolta non solo per la sua maggiore efficienza, ma perché un numero sempre maggiore di consumatori vi sta facendo ricorso nella convinzione che sia la migliore.

E dal punto di vista politico? Come cambieranno la nostra percezione e i nostri rapporti con l’Europa? Vede accelerazioni in tal senso?

La pandemia accelera la disgregazione europea. Mi spiego meglio: non ci sarà una rottura, bensì un aggiustamento delle relazioni europee in termini sostanzialmente più realistici. L’Europa tornerà ad essere quella che è sempre stata: meno di una unione di nazioni, ma più di un accordo pragmatico. Quello che davvero succederà all’Europa, in termini di accelerazioni di tendenze politiche preesistenti, è che diventerà terreno di scontro tra Usa e Cina come se non più di prima, costringendola a scelte improcrastinabili.

Questo è un punto che ci interessa molto: può approfondirlo?

L’Eurasia occidentale è una zona a governance debole. Per questo una tendenza che conoscerà una forte accelerazione è la riconvergenza tra Eurasia Occidentale e America nella cornice, ripeto, di una fortissima competizione con la Cina.  Se toccherà a Trump, lo farà in un modo; se toccherà a Joe Biden, lo farà in un altro modo. Ma la direzione è questa. Il nostro orizzonte è il ritorno al bipolarismo, con due imperi che un po’ si combatteranno e un po’ coopereranno. In questo scenario, una buona soluzione per l’Europa e l’Italia è che l’euro diventi una moneta ancillare al dollaro. Ma le dirò di più: è indubbia la convenienza di diversi Stati europei ad aggregarsi all’America per formare un sistema globale. È la famosa alleanza tra democrazie, che – se devo dirla tutta – fa apparire l’europeismo come un fenomeno puramente provinciale.

E la Russia? Che parte giocherà in questo schema?

Giacché Mosca vuole mantenere il suo status imperiale, ma ha fortissimo timore della Cina, si collocherà nell’impero americano con il quale svilupperà una qualche forma di collaborazione. Non può fare altro.

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