La proposta del presidente Confindustria per aiutare le imprese. Meloni vuole che Bruxelles riveda le “normative ideologiche” del Green Deal. Le critiche di Washington alle politiche Ue. . La rassegna Energia
ORSINI: “USIAMO IL FONDO DEL PNRR PER AIUTARE LE IMPRESE COLPITE DALLE BARRIERE”
Emanuele Orsini, da sette mesi presidente di Confindustria, ha passato la mattinata di ieri al Congresso della Lega. «Vado agli eventi di tutti i partiti a rappresentare gli interessi degli imprenditori: l’ho fatto con il Pd, Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione e lo farei con il Movimento 5 Stelle se mi invitassero», chiarisce. Ma una proposta per il governo ce l’ha: attingere ai fondi non utilizzati del PNRR e dei fondi di coesione per incentivare le imprese colpite dai dazi americani. Il Corriere della Sera lo ha intervistato.
C’è un rischio di delocalizzazione delle imprese verso gli Stati Uniti per evitare le barriere tariffarie?
«È qualcosa che ci preoccupa, i dazi possono incentivare certe scelte. Ne parlo dal mio discorso d’insediamento, prima che arrivassero i dazi: è logico che un imprenditore vada dove trova meno complicato lavorare».
Ma pagare un 20% per accedere al mercato americano accelererà il deflusso?
«Qualcuno ci potrà anche pensare. Ma ai nostri associati pesano più le difficoltà in Italia e in Europa che ci creiamo da soli: burocrazia, costo dell’energia, regolamentazione. Per il resto in Italia c’è ancora tanta capacità di fare prodotti unici: trasferirsi negli Stati Uniti in molti casi semplicemente è impossibile. Pensi alla meccanica di precisione, alla moda, all’agrifood, all’alimentare e altri. Sono convinto che ce la potremo fare iniziando a ridurre le barriere interne».
Il consumatore americano vale il 18% del prodotto lordo del mondo. E ora sta dietro un muro. Finiamo in recessione?
«A Confindustria abbiamo rivisto le stime di crescita dell’Italia nel 2025 dallo 0,8% allo 0,6%. Banca d’Italia ha fatto lo stesso. Ma recessione, credo di no. Abbiamo una capacità di adattamento molto forte, se l’Italia reagisce e facciamo ciò che serve».
Che intende?
«Veniamo da 24 mesi di caduta della produttività, a cui ora si aggiunge l’incertezza generata dalla guerra commerciale. Come fa un imprenditore a investire così? Il primo punto, quindi, è che il governo presenti un piano industriale straordinario a due anni per gli investimenti dove si dica dove vogliamo andare. Come salvaguardiamo i prodotti che funzionano? Come assicuriamo la trasformazione delle imprese mature che hanno difficoltà dettate da norme sbagliate del passato recente? Come apriamo nuovi mercati in America Latina, in India, in Africa?»
Lei martedì vede Giorgia Meloni. Quali proposte porta a Palazzo Chigi?
«Credo che in Europa un po’ di sveglia serva. L’Unione europea pesa per il 13,4% del Pil mondiale e per il 7% delle emissioni. Intanto altre grandissime economie non si impegnano come noi e non praticano la nostra responsabilità sociale d’impresa. Io sono per la tutela dell’ambiente e la mia stessa azienda ci lavora molto. Ma sull’auto elettrica o i certificati verdi, su cui si è creata una speculazione finanziaria, è chiaro che c’è molto da cambiare». Trasferirsi negli Usa in molti casi è impossibile, come nella meccanica di precisione o nella moda.
Molti studi mostrano che le imprese più avanti nella transizione verde sono più competitive…
«Nessuno chiede a chi ha investito di tornare indietro. Ma come si fa a lasciare tutta questa incertezza in Europa sulle multe per l’auto elettrica? Così gli investimenti non arrivano. Quindi penso che l’Europa debba fare un passo indietro, dev’essere velocissima nel dare linee chiare: che ci si fermi, che gli obiettivi verdi oggi sono sospesi. Il tempo è scaduto».
(…)
«Ormai si è capito che il piano Industria 5.0 (6,3 miliardi di incentivi del Pnrr agli investimenti in digitale e ambiente) non funziona. È inutile che continuiamo a spingere su una misura che, se siamo fortunati, assorbirà due miliardi in tutto. Il Pnrr è stato pensato per abbattere le emissioni, ora invece l’obiettivo è salvare l’industria europea. Quindi con i soldi rimasti del Pnrr, come con quelli dei fondi di coesione — e sono davvero tanti — serve il coraggio di puntare sulle priorità di attuali».
Pensa a un nuovo piano di incentivi agli investimenti?
«Sì. Ma non al 5% o al 10%, almeno al 30%. E con meccanismi di credito d’imposta semplici, senza troppa burocrazia, automatici. Altrimenti tante imprese medio-piccole non seguiranno».
GREEN DEAL, MELONI AVVISA BRUXELLES E GUARDA A WASHINGTON
Aspettando che la Casa Bianca fissi la data per il bilaterale tra Giorgia Meloni e Donald Trump (probabile il 16 aprile, tanto che la nostra ambasciata negli Usa è già stata allertata), la premier cambia toni. Quelli più aspri non li riserva a Washington, ma a Bruxelles. Scelta – scrive Repubblica – soprattutto mediatica, perché i contatti con Ursula von der Leyen sono costanti: proprio d’accordo con lei, proverà negli Usa a dimezzare i dazi. Ma alla premier serve coprirsi a destra, dove Matteo Salvini invoca addirittura la motosega di Milei contro l’Unione. E allora, collegandosi proprio con il congresso leghista di Firenze, Meloni mette nel mirino l’Ue. Spiegando in un filmato registrato che «torneremo a chiedere all’Europa di rivedere con forza le normative ideologiche del Green Deal». La leader di FdI se la prende pure con «l’eccesso di regolamentazione ». Una combo che, a suo dire, «oggi costituisce dei veri e propri dazi interni che finirebbero per sommarsi in modo insensato a quelli esterni». Di entrambi, spiega la premier, «avremmo felicemente fatto a meno».
Però ora il problema c’è. Ed è in cima all’agenda. «Affronteremo anche il tema dei dazi — le parole della premier — senza allarmismi». La mossa di Trump, ripete, «non l’abbiamo ovviamente condivisa», maora c’è un mondo produttivo da rasserenare: «Siamo pronti a mettere in campo tutti gli strumenti, negoziali ed economici, per sostenere le nostre imprese».
Se ne discuterà oggi pomeriggio a Palazzo Chigi, dove sono convocati i ministri Giancarlo Giorgetti (Economia), Francesco Lollobrigida (Agricoltura), Tommaso Foti (Affari Ue), Adolfo Urso (Imprese), più i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani, che in mattinata sarà in Lussemburgo al consiglio Ue sul commercio, per discutere dei dazi americani e cinesi. Lì il ministro degli Esteri porterà la posizione concordata con Meloni: l’Italia è contraria a ritorsioni immediate contro gli Usa, confida che sia accantonato il “super-bazooka” di restrizioni all’export americano, ma se non ci saranno segnali negoziali da Washington alla fine non si metterà di traverso sui contro-dazi previsti dal 15 aprile. Nella riunione — a cui seguirà domani il vertice con le imprese, sempre a Chigi — il governo stilerà un pacchetto di richieste per Bruxelles.
Sospensione del patto di stabilità, su cui però non c’è ancora intesa nell’Ue. Una deregulation. Più un fondo «compensativo europeo», di cui parlava ieri Urso, perché «per misure compensative nazionali vanno riviste le norme sugli aiuti di Stato». La riunione servirà, secondo fonti di governo, anche per concertare la posizione in maggioranza. Per capire insomma se Salvini, dopo il congresso, abbasserà i toni. Anche per questo è in programma un incontro a tre fra i leader, dopo la riunione della task force. Meloni sa che la fase è delicatissima. «La più difficile dal Dopoguerra, sta succedendo di tutto», ammette nel video in cui parla di un momento «atratti fisicamente molto impegnativo ». E, certo, l’impegno sbandierato è sempre quello: «Andremo avanti fino alla fine della legislatura». Ma con un mucchio di insidie.
GREEN DEAL, PLASTICA E OGM: LE DIRETTIVE NEL MIRINO DI TRUMP
Regole troppo restrittive sulla protezione dell’ambiente, della salute e dei dati personali. Applicazione non uniforme della normativa comunitaria fra gli Stati membri. Lentezza della burocrazia. Sono queste le tre critiche principali rivolte all’Unione europea dall’amministrazione americana, raccolte nel Report sulle barriere al commercio estero del 2025. Quattrocento pagine – 33 delle quali dedicate all’Unione europea – messe a punto dall’ufficio del rappresentante per il commercio Jamieson Greer, che fanno da sfondo alla decisione Usa di applicare dazi a una lunghissima serie di Paesi.
Come scrive Il Sole 24 Ore, la Ue compare al secondo posto della tabella mostrata dal presidente americano Donald Trump il 2 aprile, quando dal Giardino delle rose della Casa Bianca ha annunciato le nuove tariffe. L’Unione, secondo il presidente, addebiterebbe ai prodotti degli Stati Uniti dazi del 39%, a fronte dei quali gli Usa imporranno dazi del 20%. Il calcolo è stato effettuato in realtà mettendo in relazione il disavanzo commerciale statunitense verso la Ue con il totale delle importazioni dall’Europa.
Ma, al di là di questo sistema di calcolo (giudicato da più parti opinabile dal punto di vista economico), per gli Usa c’è un cahier de doléances più ampio. L’Unione europea è sotto accusa non solo per le tariffe effettive imposte ai prodotti extra Ue, per esempio del 10,8% sui prodotti agricoli, ma anche per una vasta serie di normative e di regole che rappresentano a guardar bene il cuore delle politiche europee in campo ambientale, di tutela della salute e della privacy.
Il rapporto dell’amministrazione americana ripercorre numerose direttive europee degli ultimi anni e ricorda le preoccupazioni sollevate più volte dagli Stati Uniti, anche davanti all’Organizzazione mondiale del commercio.
Per gli Usa, Bruxelles adotta misure troppo restrittive sulla valutazione della conformità dei prodotti agli standard regionali europei, che «impongono oneri significativi sui lavoratori e sugli esportatori statunitensi». Un altro capitolo riguarda le biotecnologie in agricoltura: secondo l’amministrazione Trump, «decenni di dati ed esperienze dimostrano la sicurezza delle colture geneticamente modificate, oltre ai benefici del loro utilizzo nella riduzione dell’uso di pesticidi (…), nel migliorare la salute del suolo, i raccolti e i redditi degli agricoltori. Nonostante questi benefici – nota il rapporto – la mancanza di prevedibilità, l’eccessiva richiesta di dati e i ritardi nel processo di approvazione della Ue per le colture Ogm hanno impedito l’esportazione di prodotti nell’Unione europea, anche se questi sono stati approvati e coltivati in sicurezza negli Stati Uniti e in altri Paesi per molti anni».
Altri motivi di scontento sottolineati dall’amministrazione Usa sono i divieti e le restrizioni europee «sulla carne prodotta con ormoni, beta-agonisti e altri promotori della crescita approvati per l’uso negli Stati Uniti»; le regole di prossima applicazione (2026) sul packaging, che dovrà contenere una certa percentuale di plastica riciclata secondo determinati criteri di sostenibilità; il regolamento del 2023 sulle filiere senza deforestazione; gli obiettivi del Green Deal europeo, che mirano a ridurre l’uso di pesticidi e fertilizzanti in agricoltura. Critiche anche per il Gdpr, il regolamento Ue sulla protezione dei dati personali, e sull’Ai Act, in fase di attuazione da qui al 2027.