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Il ruolo dei dazi nell’intreccio tra guerra ed economia

Secondo l’analista Paolo Della Sala , “sui dazi la storia e i dati rovesciano l’opinione comune dei telegiornali. Le guerre periferiche e asimmetriche determinano una spinta verso una maggiore presenza dello Stato e l’autarchia nelle materie prime”

Il tema dei dazi continua ad essere di strettissima attualità. Secondo quanto filtra da fonti europee, Bruxelles e Washington starebbero pensando ad un accordo sul modello di quello già siglato con il Giappone, che includerebbe quindi l’abbassamento delle tariffe più alte finora in vigore per alcuni settori, tra cui quello dell’automotive.

Sui dazi – scrive Paolo Della Sala sul sito dell’Istituto Bruno Leoni – la storia e i dati rovesciano la communis opinio dei telegiornali. Chiaramente, le guerre periferiche e asimmetriche determinano di per sé una spinta verso una maggiore presenza dello Stato e l’autarchia nelle materie prime.

I DAZI TRA EUROPA E STATI UNITI

Nel caso dell’Europa, dopo il brusco risveglio dovuto all’invasione dell’Ucraina, si è passati dal nutrire un nemico potenziale ma manifesto (compravamo dalla Russia il 40% del gas consumato in Europa) alla ricerca di fornitori alternativi.

Venendo ai dazi inter-atlantici, il primo caso eclatante si verificò nel 1930, quando gli USA, con lo Smoot-Hawley Tariff Act, incrementarono i dazi su circa 20mila prodotti, provocando una ritorsione dei principali partner, soprattutto europei.

LA “CHICKEN WAR”, GLI ORMONI DELLA CARNE E I CASI POLITICI

Questa politica è considerata una delle principali ragioni per cui la recessione di fine anni ‘20 si trasformò in Grande Depressione, che durò per tutto il decennio successivo. Negli anni successivi l’import statunitense calò del 40% e buona parte del crollo fu dovuto ai dazi imposti. Negli anni Sessanta ci fu la così detta “chicken war” tra Stati Uniti ed Europa, dovuta all’import di polli allevati in batteria. Negli anni Ottanta vi fu la controversia sugli ormoni nella carne.

Non vanno dimenticati casi politici, come quello del Nobel per la pace assegnato nel 2010 al dissidente cinese Liu Xiaobo, cui il governo di Pechino reagì, bloccando l’import di salmone norvegese. A sua volta, il presidente Ronald Reagan nel 1981 impose delle sanzioni alle aziende europee ed americane che utilizzavano tecnologia americana per costruire il primo gasdotto tra la Russia (ancora sovietica) e la Germania.

I DAZI USA SU ACCIAIO E ALLUMINIO

Anche nel caso dei dazi sull’acciaio e l’alluminio – imposti da Donald Trump nel 2018, ma mantenuti dall’amministrazione Biden – gli Usa si sono giustificati sostenendo che era “una questione di sicurezza nazionale”. La Cina, che era tra i Paesi sanzionati da Trump (che aveva incluso anche alleati come Australia, Argentina, Corea del Sud, Canada e Messico), reagì immediatamente, imponendo dazi su 128 prodotti americani come acciaio, alluminio e aerei.

Anche l’Unione europea reagì applicando dazi su prodotti made in Usa, tanto che, ad esempio, le moto Harley Davidson furono tassate col 56%. I dazi furono mantenuti anche dall’amministrazione di Joe Biden, che avrebbe esentato l’Ue a patto che questa imponesse a sua volta dei dazi sulla Cina. Ciò non avvenne, la trattativa fu bloccata e i dazi restarono.

Con Biden nuove imposizioni doganali colpirono la Cina, a partire dai pannelli fotovoltaici e dalle auto elettriche (le “minicar” cinesi di recente sono state colpite da Bruxelles). Dal 2018 al 2024 i dazi hanno prodotto al governo americano un gettito di 233 miliardi. Stagnaro e Saravalle considerano la cifra ricavata come “una tassa sui consumatori americani”.

I SUSSIDI DELLA CINA PER I PANNELLI SOLARI E LE AUTO ELETTRICHE

Nel luglio 2024, prima che scoppiasse la guerra dei dazi di Trump, l’Ue valutò come scorretto il sistema cinese di dare sussidi di Stato alle fabbriche di pannelli fotovoltaici e di auto elettriche, quindi applicò tassazioni doganali di entità variabile tra il 17 e il 38%, in aggiunta ai dazi già esistenti. Attualmente, le auto cinesi in Europa sono tassate del 50%, mentre negli USA del 100%.

Secondo Saravalle e Stagnaro, c’è una correlazione positiva tra il libero commercio internazionale e la diminuzione della conflittualità bellica per cui, se oggi ci troviamo tra Scilla e Cariddi il motivo è dovuto all’interventismo statale contro i mercati aperti.

GLI EFFETTI DISTORSIVI NEGLI STATI UNITI

Un altro effetto distorsivo consiste nel premiare l’industria nazionale. Cominciò Barack Obama, e in seguitò continuò Joe Biden con l’Inflation reduction act (IRA), che consisteva in alcuni incentivi sui prodotti nazionali legati alla transizione energetica green: pannelli made in Usa, auto elettriche, batterie.

Secondo il Congressional budget office, questi sussidi costeranno 400 miliardi nel decennio 2022-2031 ma, secondo Goldman Sachs, si potrebbe arrivare a 1.200 miliardi. In Europa, il “Rapporto Draghi” del 2024 propone un “bazooka economico” da 800 miliardi di euro.

LA GUERRA DEI SEMICONDUTTORI

Inoltre, c’è la guerra dei semiconduttori: alcune società, come Samsung e Intel, se li producono in casa; altre li sviluppano in casa, ma li fanno produrre all’estero, soprattutto a Taiwan dalla potente TMSC. Vi sono poi aziende poco appariscenti, come l’olandese ASMI, che si occupa di produrre le macchine per la fotolitografia, indispensabili per la produzione di chip, di cui ASMI è monopolista. Nel 2024 TMSC deteneva il 61,7% del mercato mondiale di microchip, e Samsung l’11%. Contro la cinese Huawei si sono scatenate guerre sul punto della intercettazione di dati.

La penetrazione tecnologica di hacker è centrale nelle guerre commerciali. Ebbene, la Cina che per l’acquisto di chip spende di più che per l’acquisto di petrolio, replicò bloccando l’acquisto di chip statunitensi della Micron Technology. Il “Chips and science act di Biden” del 2022, impiegava 280 miliardi di dollari – tra sussidi, crediti d’imposta, investimenti in ricerca e sviluppo – per incrementare la produzione di semiconduttori negli Usa. Biden tra l’altro erogò 11 miliardi di dollari alla taiwanese TMSC.

BINI SMAGHI: “WALL STREET NON TEME I DAZI E CONTINUA A CRESCERE”

L’economista Lorenzo Bini Smaghi osserva che la guerra dei dazi vive una contraddizione singolare: nonostante le previsioni nefaste di quasi tutti gli economisti, Wall Street continua a crescere, e molto: non li teme. Forse gli investitori ritengono che i dazi alla fine impatteranno poco sull’economia.

Smaghi ipotizza che il PIL americano non sia poi così influente nei mercati azionari: contano di più le Sette Sorelle, che non sono più i vecchi atout del petrolio, ma quelli dell’hi-tech, tutti ben internazionalizzati. Un’altra ipotesi è che Wall Street dia più valore alla “deregulation” trumpiana che ai dazi.

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