Assonime svela i vizi che hanno paralizzato Taranto: ideologia, populismo e immobilismo. Intanto, le offerte per l’acciaieria prevedono 7.500 esuberi e un futuro incerto.
La vicenda dell’ex Ilva di Taranto a tredici anni dall’arresto di Emilio Riva e della nazionalizzazione forzata, non si è evoluta e lo scenario che si presenta è apocalittico. Secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore, la proposta di Bedrock Industries per l’acciaieria, prevederebbe la conservazione di duemila addetti a Taranto e di altri mille addetti nel resto dell’Italia, fra gli stabilimenti di Novi Ligure e di Cornigliano e i servizi logistici e commerciali sparsi nella penisola. Gli altri vittime dei tagli, secondo una stima gli addetti che dovranno uscire definitivamente dal perimetro sono compresi fra i settemila e i settemila e cinquecento.
Non solo, secondo quanto riporta Il Foglio, uno studio pubblicato da Assonime rivela quello che è sotto gli occhi di tutti: la vicenda di Taranto riflette i vizi che frenano l’Italia: ideologia, populismo e immobilismo.
LE OFFERTE DEGLI AMERICANI
Sia Bedrock, sia l’altro fondo americano, Flacks Industries in cordata con gli altrettanti semisconosciuti slovacchi di Steel Business Europe, avrebbero quantificato la loro offerta finanziaria in una cifra tonda: un euro, secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore.
CHI C’E’ NELLA CORDATA DIETRO L’EX ILVA
I precedenti proprietari, gli indiani di Arcelor Mittal, hanno fatto causa allo Stato italiano chiedendo oltre due miliardi e mezzo di danni. I commissar non hanno ancora fatto alcuna azione legale contro Arcelor Mittal. Sono passati mesi e mesi e mesi ed è stata indetta una prima gara. La prima gara si è svolta regolarmente. Secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore ha prevalso il consorzio azero imperniato industrialmente su Baku Steel e finanziariamente sulla compagnia pubblica del gas, la Socar. Il governo Meloni ha di fatto riscritto, dopo la gara, il piano industriale dell’ex Ilva con un piano verde al cento per cento con solo forni elettrici. Serviva una nave rigassificatrice nel porto di Taranto, per mantenere stabile il ciclo energetico di forni elettrici e preridotto ma il sindaco Bitetti e Emiliano, presidente della Regione Puglia, hanno assecondato chi non la voleva. È stata rifatta la gara e Baku Steel si è girata dall’altra parte. Il Mef non ha mai accettato che l’ex Ilva potesse essere abbondantemente finanziata nella decarbonizzazione con soldi statali. Peraltro, i fondi americani chiedono proprio questo: una marea di fondi pubblici, in una quantità difficile da quantificare per mantenere in vita un’impresa da tremila addetti.
COSA PUO’ SUCCEDERE CON L’EX ILVA
Secondo quanto riporta Il Sole 24 Ore, i sindacati dovranno gestire uno dei più violenti crack della nostra storia, e non sempre basta il metadone dei sussidi e della Cig. Il problema è anche sanitario e ambientale perché oggi non esiste in Europa un impianto con il livello di tecnologie ecologiche dell’ex Ilva, il rischio è che l’acciaieria si trasformi in una immensa Bagnoli, dove lo Stato ha operato già con pessimi risultati. Se le cose andranno veramente male, Taranto diventerà una miniera da smontare, riciclare, fare a pezzi, vendere per gli imprenditori più spregiudicati e per gli imprenditori già pregiudicati.
EX ILVA: RADIOGRAFIA DI UN PAESE CHE NON FUNZIONA
Come riporta Il Foglio, l’Ilva è la cartina al tornasole degli “ismi” italiani, che non solo hanno tenuto intrappolata l’acciaieria più grande d’Europa, ma che continuano a condizionare ogni grande decisione industriale e politica del nostro paese. Ambientalismo ideologico, populismo giudiziario, immobilismo politico. Ma anche clientelismo locale, statalismo senza strategia, nazionalismo industriale mal gestito. È la sindrome italiana elevata a caso di scuola. Quando nel 2012 scattarono i sequestri degli impianti dell’Ilva, la motivazione era semplice e comprensibile: ridurre le emissioni, salvare vite, rispondere all’allarme sanitario: si applicarono prescrizioni tratte da conclusioni europee non ancora recepite nell’ordinamento italiano. Risultato? Non un miglioramento ambientale proporzionato, ma un crollo produttivo devastante. Un pezzo di verità che lo studio definisce “un esproprio senza indennizzo”: la fabbrica è rimasta al suo posto, ma svuotata di prospettiva, di credibilità e di capacità di produrre. Poi c’è il populismo giudiziario. La vicenda Ilva è stata segnata da un uso espansivo e creativo del diritto penale. Sequestri, confische, e inchieste trasformate in politica industriale surrogata. Ogni governo, da Monti a Renzi, da Gentiloni a Conte, si è trovato costretto a varare decreti “Salva Ilva” per aggirare decisioni giudiziarie che paralizzavano l’impianto. Ma ogni decreto alimentava a sua volta un conflitto istituzionale senza fine: procure contro esecutivi, giudici contro ministri, norme emergenziali contro sentenze. In questa spirale, i lavoratori restavano ostaggi, le bonifiche si fermavano, le famiglie di Taranto venivano usate come scudi morali. Il terzo “ismo” è l’immobilismo politico. In undici anni di decreti e commissari, l’Italia avrebbe potuto avviare una transizione dell’acciaio da leader europeo: forni elettrici, produzione di Dri (ferro ridotto diretto), integrazione con le rinnovabili. Il mondo correva in quella direzione, Berlino e Stoccolma investivano miliardi, e noi restavamo al palo. Assonime ricorda con durezza che l’Italia ha perso l’occasionedi usare i fondi europei, di attrarre investitori internazionali, di rendere Taranto un laboratorio del green steel. Invece, nulla: scelte rimandate, progetti congelati, soluzioni rimandate a un “anno prossimo” che non arriva mai. È la stessa paralisi che si vede in tanti altri settori: dalla digitalizzazione alla politica energetica, dalla giustizia alla scuola. Un Paese che si muove solo sull’onda dell’emergenza, mai sulla base di una strategia.
STUDIO ASSONIME
Lo studio di Assonime, come riporta Il Foglio, non è solo un’autopsia dell’Ilva è un referto sullo stato della Repubblica. L’Ilva non è un’eccezione, è un paradigma. È la stessa logica che ritroviamo in altre grandi vertenze: nelle infrastrutture energetiche, dove i rigassificatori si fanno solo quando la crisi esplode; nelle autostrade e nelle ferrovie, dove i cantieri si aprono e si chiudono al ritmo dei ricorsi; nella gestione dei rifiuti, dove l’ideologia verde impedisce soluzioni tecnologiche adottate ovunque in Europa. È un’Italia che racconta molto bene i suoi problemi, che produce studi e commissioni, che convoca tavoli e annuncia piani, ma che raramente imbocca la strada della decisione. Vogliamo continuare a raccontare la tragedia infinita dell’Ilva come un caso unico, oppure vogliamo leggerla come uno specchio? Perché se scegliamo la seconda opzione, la lezione è chiara. Il paese che si indigna a giorni alterni per Taranto è lo stesso che si rassegna a convivere con i suoi vizi strutturali. Ilva non è solo un’azienda, è un avvertimento. E se non impariamo da quella storia, non sarà solo l’acciaio a mancare: sarà la possibilità di essere finalmente un paese capace di decidere.