Tra dazi UE e crisi dell’auto europea, Pechino punta a trasformare l’Italia in hub produttivo per l’Europa. Opportunità occupazionale o rischio di diventare una piattaforma di assemblaggio a basso valore?
Nei prossimi anni l’automotive globale sarà colpito da una “crescita zero” e la sfida per il primato si giocherà sempre più sull’asse Usa-Cina. L’Ue potrebbe essere colpita da una tempesta perfetta e l’Italia rischia di pagare il conto più salato. La scelta di aprire le porte del nostro Paese ai produttori di Ev cinesi, quali Dongfeng e BYD, potrebbe rivelarsi un boomerang.
UE IN AFFANNO, LA CINA VUOLE COLONIZZARE L’EUROPA
Il settore auto europeo sta subendo una contrazione senza precedenti. Le case europee stanno tagliando la capacità produttiva di 400.000 veicoli, mentre i produttori cinesi puntano a raddoppiare la loro quota di mercato nel continente, passando dal 5% attuale al 10% entro il 2030, secondo l’ultimo report di AlixPartners. Pechino ha messo nel mirino la produzione locale. Entro la fine del decennio, si prevede che i costruttori cinesi assembleranno in Europa fino a 1,8 milioni di veicoli. La cattiva notizia è che nei prossimi anni il settore sarà colpito da una “crescita zero”, secondo Bain & Company.
Una tempesta perfetta provocata dai dazi Usa contro l’import di veicoli cinesi, dalla pressione tecnologica di Pechino e da una domanda interna europea sempre più debole. Una combinazione che potrebbe impattare in particolare sull’Europa e sull’Italia, che potrebbero subire le conseguenze più gravi, già provate da recessione, declino demografico e una transizione energetica che procede più a rilento rispetto agli standard asiatici.
AUTO, XIAOMI COPIA LA FERRARI E SPOPOLA
Le Ev cinesi hanno tutte le carte in regola per sconfiggere i rivali. L’arma in più è il prezzo. Basti pensare che Xiaomi, gigante della tecnologia, ha appena lanciato il suo SUV elettrico YU7, che richiama nel design supercar come la Ferrari Purosangue e la McLaren. Un’auto da 681 cavalli, venduta in Cina a un prezzo tra 34.500 e 44.700 dollari: la metà dei concorrenti europei di pari gamma. Una scommessa che sembra vinta: in un’ora dal lancio sono stati effettuati 289.000 ordini. Cosa succederà quando approderà in Italia?
ITALIA, OPPORTUNITA’ O COLONIZZAZIONE?
Nel bel mezzo di questa tempesta, l’Italia prova a giocare una partita di sopravvivenza e rilancio . Il governo Meloni, tramite il ministro delle Imprese Adolfo Urso, ha aperto un fronte diplomatico-industriale con la Cina. L’obiettivo è attrarre investimenti diretti, convincere le case cinesi a produrre in Italia e trasformare il Paese in un hub europeo per l’auto elettrica.
A maggio è stato firmato un memorandum di intesa con Pechino su mobilità elettrica e tecnologie green. Parallelamente, sono in corso trattative avanzate con Dongfeng, con l’obiettivo di aprire uno stabilimento in Italia. Il Governo mette a disposizione incentivi ma ad alcune condizioni chiare: almeno il 45% di componentistica deve essere italiana, così come la gestione dei dati. Ma anche altri gruppi cinesi, tra cui BYD e Aiways, hanno avviato contatti con Roma. A fine estate sono previste missioni istituzionali in Cina per chiudere accordi finali.
IL RISIKO DEI SITI PER LE AUTO
Quali siti produttivi potrebbero ospitare le nuove fabbriche cinesi? Le opzioni sul tavolo non mancano. Il più papabile è l’ex impianto Maserati di Grugliasco (Torino), già dotato di infrastrutture e inserito in un distretto industriale con un forte indotto. Ma si guarda anche al Molise, con l’area di Macchia d’Isernia, dove il gruppo DR ha proposto un impianto destinato ad assemblare modelli Chery, Baic e Dongfeng.
PRO E CONTRO
Aprire le porte dell’Italia ai costruttori di auto cinesi è una scelta non è priva di rischi. Da un lato, aprire alla produzione cinese in Italia significa salvaguardare occupazione, filiera e competitività in un mercato sempre più globale. Infatti, se tutti i piani andassero in porto, si stima che potrebbero essere creati fino a 11.000 nuovi posti di lavoro, con un impatto significativo sull’economia locale e nazionale.
Dall’altro lato, però, c’è il rischio di trasformare l’Italia in una piattaforma di assemblaggio a basso costo, tradendo la tradizione manufatturiera nazionale e provocando una perdita progressiva di controllo sulle tecnologie e sulle catene del valore.