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Groenlandia

Tutte le novità sulla guerra (anche energetica) sulla Groenlandia

Groenlandia, Iran e Coronavirus al centro del Taccuino estero di Marco Orioles per Energia Oltre

All’epoca – era giusto l’anno scorso – fu considerata l’ennesima affermazione strampalata di Donald Trump.

Ma nonostante il secco niet ricevuto al tempo dai diretti interessati, e l’accusa piovuta da più parti di neo-colonialismo, l’idea che gli Usa acquistino la Groenlandia non è affatto tramontata.

Si è invece evoluta in una recente proposta di legge governativa apparentemente innocua ma che, a ben vedere, mantiene intatte le mire dell’America su quella che viene considerata una miniera d’oro oltre che un territorio strategico nel cuore di una regione – l’Artico – che sta scatenando la corsa alla conquista delle migliori posizioni da parte delle maggiori potenze mondiali.

La proposta depositata la settimana scorsa in Campidoglio dalla Casa Bianca si impernia sulla creazione di una “presenza diplomatica permanente in Groenlandia”: un consolato nuovo di zecca, in poche parole, con un fondo a disposizione di 587 mila dollari.

Come ha spiegato a Politico una fonte del Dipartimento di Stato, con questa mossa gli Usa puntano a centrare due obiettivi. Si tratta, in primo luogo di “rappresentare gli americani che sono” in Groenlandia alla stregua di qualsiasi rappresentanza diplomatica nel mondo.

Ma il punto chiave è chiaramente il secondo, che consiste – continua la fonte –  nel “consolidare “una presenza strategica” in un luogo che offre almeno due vantaggi a chi dovesse controllarlo direttamente o indirettamente: da un lato, una posizione nella carta geografica che lo rende fondamentale per qualsiasi disegno geopolitico e militare di medio o lungo termine sull’Artico, e dall’altro la presenza di giacimenti fossili dalle immense potenzialità nonché di generose quantità di metalli rari che fanno gola a svariate industrie di punta, da quelle specializzate in componentistica elettronica a quelle che producono smartphone, motori per jet e macchine elettriche. “È per questo”, sottolinea il funzionario, “che la Russia è interessata (alla Groenlandia), che la Cina è interessata, e lo è anche gran parte dell’Europa”

Sulla natura strategica della location vi sono davvero pochi dubbi, rimarca sempre su Politico Walter Berbrick, direttore del gruppo di Studi Artici allo U.S. Naval War College di Newport, per il quale la posizione geografica della Groenlandia la rende “uno dei luoghi più strategici al mondo”. Una dote che le deriva dal trovarsi al centro della via più breve tra Nord America ed Europa, ma anche dall’essere la porta d’accesso al Polo Nord nonché dal fatto di sorgere in un punto da cui si possono raggiungere facilmente tanto la Gran Bretagna quanto la Russia.

Non è un caso – osserva Mead Treadwell, co-direttore del Polar Institute del Wilson Center e già presidente della Commissione di Ricerca sull’Artico istituita una decade fa sotto l’amministrazione di George W. Bush – che proprio qui l’America abbia una base della propria aviazione in quel di Thule che ospita il sistema di difesa balistico (“early warning”) chiamato a neutralizzare, con i suoi potenti radar, eventuali sortite missilistiche nemiche.

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Tutto tace in Iran in merito ai risultati delle elezioni parlamentari di venerdì. Ed è un ritardo che molto ci dice sulla situazione di un Paese che vive uno dei momenti più difficili della sua storia recente.

Le ragioni del travaglio della Repubblica Islamica chiamata l’altro ieri al rinnovo del Majlis (l’Assemblea legislativa composta da 290 deputati) sono tutto fuorché un mistero. Se si segue il filo del ragionamento enucleato nel focus Ispi a firma Alessia De Luca, il problema n. 1 della Repubblica Islamica avrebbe anzi un indirizzo e un nome ben preciso: la Casa Bianca di Donald Trump.

È stata infatti la decisione unilaterale – e, proprio per questo motivo, contestatissima dalla comunità internazionale e dall’Europa in particolare – del presidente Usa di stracciare, nella primavera di due anni fa, l’accordo sul nucleare (Jcpoa) negoziato dal suo predecessore Obama e di reintrodurre le sanzioni secondarie contro l’industria petrolifera e altri settori nevralgici dell’economia iraniana ad innescare una crisi economica e sociale ben evidenziata, oltre che dalle sollevazioni popolari di questi ultimi mesi represse come da tradizione nel sangue, da due indicatori chiave ricordati dall’Ispi: una contrazione del Pil pari a sei punti percentuali e un’inflazione schizzata al 33%.

Non è solo il già martoriato popolo iraniano a pagare il prezzo dell’embargo Usa sotto forma di forti rincari dei generi di prima necessità nonché di ogni bene importato dall’estero. La vittima più illustre della campagna di “massima pressione” degli Usa culminata a gennaio con la clamorosa uccisione del generale Soleimani all’aeroporto di Baghdad corrisponde infatti al nome della persona che più di altri è identificata con l’accordo nucleare e che, dopo il clamoroso dietrofront dell’America, è diventata lo zimbello e il bersaglio predestinato dei suoi agguerriti avversari politici: il presidente della Repubblica Hassan Rouhani.

Il fronte dei “principalisti” – il campo che unisce i conservatori e radicali che seguono alla lettera le direttive rivoluzionarie del fondatore della Repubblica Islamica, Ruhollah Khomeini, e che si riconoscono oggi nella leadership del suo successore Ali Khamenei – si appresta infatti a capitalizzare nelle urne due anni di delegittimazione di colui che più di altri (all’infuori forse del suo ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif) ha creduto alla normalizzazione dei rapporti con il Grande Satana e che per questa ingenuità potrebbe ora pagare, insieme all’intero campo riformista di cui è l’esponente più in vista, il più caro prezzo elettorale.

Se, come ritiene De Luca, a breve ci troveremo a commentare una disfatta riformista e il trionfo dell’ala dura, non lo dovremo però alla sola volontà dell’amministrazione Trump di riaprire in grande stile la stagione delle ostilità con il vecchio nemico islamista.

Comunque andrà a configurarsi, il risultato delle elezioni di ieri sarà viziato in origine dalle mosse preventive compiute dai principalisti per assicurarsi la vittoria. Una vittoria che sarà senz’altro favorita dalla durata semplicemente ridicola della campagna elettorale (appena una settimana) e soprattutto dalla decisione, da parte di quell’organo “costituzionale” che si chiama Consiglio dei Guardiani, di escludere 7.300 candidature – comprese quelle di 75 deputati uscenti – sulle 16 mila presentate (decisione che ha spinto il Tesoro Usa a varare seduta stante nuove sanzioni nei confronti di cinque funzionari del regime).

Non stupiscono, in questo senso, le proiezioni diffuse nella serata di ieri da Reuters, che assegnerebbero almeno 178 seggi ai conservatori e appena 17 ai riformisti.  Un risultato che delinea una vittoria netta per l’ex sindaco di Teheran e capofila dei conservatori, Mohammed Baqer Qalibaf, proiettato ormai sulla poltrona di portavoce del prossimo parlamento – che userà come trampolino di lancio per la candidatura a presidente nelle elezioni in programma l’anno prossimo.

Se sull’exploit dei falchi sembrano esserci pochi dubbi, c’è però un fattore in gioco che potrebbe riverberarsi sui risultati elettorali con conseguenze impossibili da prevedere. Il fattore si chiama Coronavirus, che mercoledì in Iran ha fatto le prime due vittime e costretto il regime a chiudere scuole e università nella città santa di Qom.

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Quando, un mese fa, gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità denunciarono i pericoli della “infodemia” che, a colpi di mezze falsità o vere e proprie fake news, sta contagiando il mondo reale e virtuale come se non più di quanto stia facendo il coronavirus, non fecero probabilmente i conti con un fenomeno ancora più insidioso.

Le potremmo chiamare, con il beneficio d’inventario, “infowars”, quelle che vedono Cina e Stati Uniti fare a gara a chi la spara più grossa sulle origini del Covid-19. E non si sta parlando di anonimi e spericolati utenti social, malefici troll o diaboliche torme di bot, ma di testate giornalistiche influenti e, in certi casi, di personalità pubbliche ammantate di un’aura istituzionale.

Negli States, infatti, la teoria cospirativa per eccellenza sorta nell’era del Coronavirus – l’idea cioè che si tratti di un’arma biologica sviluppata in un laboratorio di Wuhan e poi sfuggita di mano ai suoi Frankenstein – ha goduto del sostegno di due uomini in vista nonché legati a doppio filo con la parabola di Donald Trump.

Ad aprire le danze è stato niente meno che l’ex Rasputin di The Donald, Steve Bannon. Che, per non tradire la sua reputazione di populista in chief, ha pensato bene, il 25 gennaio scorso, di ospitare nella sua trasmissione radiofonica un reporter del Washington Times, Bill Gertz, presentandolo come l’autore di uno “straordinario articolo sui laboratori biologici di Wuhan”.

Cotanta benedizione rappresentò, per Gertz, un lancio pubblicitario fenomenale che assicurò a lui e alla sua teoria almeno un’altra apparizione nell’etere Usa.

Non può stupire, a questo punto, il successivo articolo di Fox News dove si ripesca un thriller scritto nel lontano 1981 da Dean Koontz – che scelse per la sua opera il suggestivo titolo “The Eyes of Darkness” –  che avrebbe addirittura “previsto il Coronavirus”, descritto dall’autore, guarda caso, come il parto di un laboratorio militare cinese alle prese con una nuova e micidiale arma biologica.

Consola parzialmente, per così dire, il fatto che una simile teoria non abbia fatto radici nei soli States, visto che vi ha indugiato persino il tabloid inglese The Daily Mail. Ciò che sembra prerogativa degli Usa è invece il rango del personaggio che ha pensato di aggiungersi al coro.

Stiamo parlando di Tom Cotton, senatore repubblicano dell’Arkansas, protagonista di una comparsata negli studi di Fox News sfruttata per ripetere la leggenda del laboratorio militare top secret di Wuhan.

Quando, comprensibilmente, sul senatore Cotton sono piovute valanghe di critiche e censure, il reprobo ha fatto un apparente passo indietro pubblicando un tweet nel quale, oltre a sostenere di essere stato frainteso, precisava che la teoria del laboratorio di Wuhan era solo una delle ipotesi in circolazione sulle origini dell’epidemia. Aggiungendo, tuttavia, che l’ipotesi di un virus sorto nel mercato degli animali di Wuhan – sulla quale, com’è noto, si è appuntata per prima l’attenzione di medici e ricercatori – fosse proprio l’unica senza fondamento, a differenza di quelle che contemplano – Cotton dixit – “un rilascio deliberato”.

La sparata di Cotton su Fox News – su un’emittente cioè che gode, a dispetto della sua conclamata partigianeria, della più ampia audience d’America – ha avuto ovviamente un riverbero immediato. A preoccuparsi di rinforzare la teoria del senatore è stato, questa volta, il chiacchierato miliardario cinese Guo Wengui, che poche ore dopo la trasmissione di Fox si è presentato negli studi di New York della sua “G News” per registrare una trasmissione di mezz’ora.

“Lo dissi un anno fa”, spiegò Guo ai suoi telespettatori, “che prima che fossi morto il Partito Comunista Cinese avrebbe dato vita ad una massiccia crisi umanitaria, ad un disastro naturale o ad una pandemia”.

Allo show, naturalmente, non poteva mancare la classica ciliegina sulla torta, rappresentata dall’affermazione del magnate secondo cui “su un muro all’entrata del laboratorio P4 di Wuhan c’è una scritta che dice: ‘Quando entri in questo edificio, entri nel vaso di Pandora’”.

Se si è convinti e amareggiati della perfidia degli americani e di tutti coloro che, dalle parti dell’impero a stelle e strisce, stanno speculando su una tragedia per il puro gusto di dileggiare la superpotenza rivale in difficoltà, allora è bene leggere quanto ha scritto appena ieri il Global Times.

Evidentemente turbata dalle fake news made in Usa, l’edizione in lingua inglese – e proprio per questo incaricata di diffondere oltre i confini nazionali le parole d’ordine del regime – di un organo ufficiale del partito qual è il “Quotidiano del Popolo” ha pensato bene di replicare alla calunnia con gli stessi strumenti (inclusa la propagazione via Twitter). (su Start Magazine l’articolo integrale)

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