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Centrali a carbone: l’Italia perde tempo nella transizione

Due quinti delle centrali a carbone del mondo lavorano in perdita. Lo sostiene una ricerca Carbon Tracker. Però il governo gialloverde continua a tenere in piedi quelle italiane

Il think tank londinese sulla transizione energetica ha pubblicato la prima analisi globale sulla profittabilità di 6.685 centrali a carbone nel mondo, che rappresentano il 95% di tutta la capacità operativa e il 90% della capacità in costruzione. Secondo la ricerca, il 42% delle centrali a carbone mondiali già oggi non sono più profittevoli, a causa degli alti costi del carburante. Al 2040 questa percentuale potrebbe raggiungere il 72%: i prezzi delle emissioni e le normative sull’inquinamento atmosferico già esistenti faranno alzare i costi, mentre i prezzi dell’elettricità dalle centrali eoliche e solari continueranno a scendere. Ogni futura normativa poi renderebbe il carbone ancora meno profittevole.

CENTRALI PULITE PIÙ CONVENIENTI

Carbon Tracker calcola che entro il 2030 costruire nuove centrali pulite sarà più conveniente che continuare a far funzionare il 96% delle centrali a carbone esistenti oggi e in programma. La Cina potrebbe risparmiare 389 miliardi di dollari chiudendo gli impianti, in linea con l’Accordo di Parigi, invece di continuare a sfruttarli. L’Unione europea potrebbe risparmiare 89 miliardi, gli Stati Uniti 78 miliardi e la Russia 20.

QUELLE ITALIANE

Nel frattempo però il governo gialloverde continua a tenere in piedi quelle italiane. E così mentre il sindaco di Brindisi chiede un incontro a Di Maio per l’anticipo al 2015 della chiusura della centrale di Cerano, al pari del sindaco di Civitavecchia, come rilevato da Stefano Agnoli sul Corriere della Sera pochi giorni fa, è stata pubblicata la lista dei cosiddetti impianti «essenziali» per la sicurezza delle forniture a famiglie e imprese. Ovvero quelle centrali elettriche fuori mercato che ricevono un compenso per restare accese e intervenire se in qualche area del Paese si rimanesse al buio.

Si tratta di 14 centrali di cui tre a carbone (Brindisi, Assemini, Sulcis) mentre altre addirittura ad olio combustibile o a gasolio. Questa operazione di “sicurezza” costa ai consumatori italiani 400 milioni l’anno (in bolletta) e foraggiando impianti fuorimercato.

IL CAPACITY MARKET

In realtà si poteva iniziare a uscire da questa situazione già da novembre, con il cosiddetto «capacity market», approvato dall’Ue dopo un travaglio di sei anni: un sistema per incentivare i produttori che volessero costruire in aree sensibili nuove centrali elettriche più efficienti e meno inquinanti, anche a fonte rinnovabile.

È invece a metà settembre l’attuale governo ha bloccato il mercato della capacità per concedersi più tempo e approfondire le proprie posizioni. E così come confermato da Arera senza il capacity market l’Italia rischia di dover tenere in piedi le centrali a carbone per garantire la sicurezza del sistema, quindi disattendendo l’obiettivo del phase-out completo al 2025 previsto dalla Sen.

Ci serve il tempo per leggere le carte, hanno detto. Come per Tav, Ilva e Tap.

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