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Pitesai

Come sono cambiate (o non cambiate) le posizioni dei partiti italiani di fronte alle trivelle

Tra il 1994 e il 1996 l’Italia aveva superato una produzione annua di 20 miliardi di metri cubi di gas, oggi siamo a 3. Ma dal 2016, anno del referendum sulle trivelle, a oggi molte cose sono cambiate

Il 17 aprile saranno passati esattamente sei anni dal referendum che tenne nel 2016 per abrogare l’estensione del divieto di trivellazione in mare alle 12 miglia e contemporaneamente riattivare i procedimenti bloccati qualche anno prima per la ricerca di gas e petrolio in mare. Un referendum che non passò per il mancato raggiungimento del quorum, ma da quale si può trarre una lezione su quanto e come sono cambiate (o non cambiate) le opinioni dei partiti politici italiane su un tema così divisivo come le perforazioni di gas e petrolio sul suolo italiano.

IL TREND DELLA PRODUZIONE ITALIANA

Tra il 1994 e il 1996 l’Italia aveva superato una produzione annua di 20 miliardi di metri cubi di gas. Al momento secondo gli ultimi dati disponibili riferiti al 2021, sono 3,3. Il calo della produzione è stato constante già dai primi anni 2000 ma è nel 2010 con l’incidente al pozzo di Macondo nel Golfo del Messico che è arrivato il divieto di nuove perforazioni entro le 12 miglia dalla costa durante il governo Berlusconi. I governi Monti e Letta avevano cercato di farle ripartire ma poi è stato il premier Matteo Renzi a forzare la situazione che ha portato al referendum del 2016 che aveva come oggetto la norma che chiedeva di estendere la durata delle concessioni per l’estrazione di idrocarburi entro le 12 miglia sino all’esaurimento dei giacimenti.

IL BALLETTO NORMATIVO

A seguito dell’incidente al pozzo di Macondo, l’allora governo Berlusconi mise un limite, le 12 miglia che definiscono le acque territoriali, allo sfruttamento dei giacimenti in mare. Si trattava di regole molto più severe di quelle di altri paesi. Nel 2012 il governo Monti ridusse tale limite, portandolo a cinque miglia. A seguito di questa scelta, le regioni più colpite decisero di indire un referendum per tornare ai limiti del governo Berlusconi.

COME SI È ARRIVATI AL REFERENDUM

Al referendum si era arrivati con l’approvazione da parte di dieci consigli regionali della richiesta per l’abrogazione di alcune norme del “decreto Sviluppo” del 2012 e dello “Sblocca Italia”. Si chiedeva di intervenire, con l’abrogazione, su alcune norme del Decreto Monti, in particolare quelle contenute nell’art.35 che estendono il divieto di trivellazione in mare alle 12 miglia e contemporaneamente riattivano i procedimenti bloccati dal governo Berlusconi: un totale di venticinque progetti che prevedono attività di ricerca ed estrazione entro le 12 miglia ai quali se ne sarebbero aggiunti altri, compreso uno, destinato ad esplorare i fondali del mare Adriatico per 30 mila chilometri quadrati.

IL REFERENDUM DEL 2016

L’85% dei votanti si espresse a favore dell’abrogazione della norma sulla proroga delle concessioni ma il referendum non passò perché non raggiunse il quorum, avendo votato solo il 31% degli aventi diritto.

LE POSIZIONI DEI PARTITI AL REFERENDUM

I maggiori partiti politici italiani si divisero in maniera abbastanza chiara in sede di dichiarazione di voto: la posizione ufficiale del Pd fu per l’astensione. Praticamente tutti i principali partiti di opposizione si posizionarono per votare sì al referendum. Tra quelli di sinistra, tradizionalmente più attenti ai temi del rispetto dell’ambiente e delle energie rinnovabili, e precisamente SEL, Possibile (il movimento fondato da Pippo Civati quando uscì dal PD), L’Altra Europa con Tsipras e i Verdi. Tra gli altri partiti di opposizione, anche il Movimento 5 Stelle e Italia dei Valori fecero campagna per i sì. Poi ci sono molti partiti di destra: Lega Nord, Fratelli d’Italia, Forza Nuova e Casapound, si schierarono per il sì. Rimase incerta solo la posizione di Forza Italia e Nuovo Centro Destra che non espressero una posizione chiara insieme a Unione di Centro.

LE POSIZIONI ATTUALI

Ma come sono attualmente le posizioni dei partiti italiani di fronte a una possibile ripresa delle perforazioni? Al momento non si è parlato di nuovi giacimenti ma di sfruttare quelli già esistenti per aumentare la produzione fino a 2,2 miliardi di mc di gas aggiuntivi. Tuttavia alcune formazioni politiche hanno già espresso la loro opinione. La Lega ad esempio, è da tempo favorevole a far ripartire le concessioni: dopo aver bloccato con una moratoria le trivellazioni ai tempi del governo del M5s hanno provato anche con degli emendamenti a far ripartire i giacimenti italiani, mentre i Cinque stelle sono rimasti sulle loro posizioni di netta contrarietà. Insieme a loro LeU ed Europa Verde. Forza Italia sembra essere favorevole a questo tipo di scelte in campo energetico malgrado il governo Berlusconi ideò il blocco delle trivelle sulla scia dell’incidente nel Golfo del Messico, così come Italia Viva e il Pd con il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini che chiede di estrarre il gas in Adriatico, come riporta La Repubblica edizione Bologna, e Chiara Braga che ha promosso il Pitesai come piano regolatore che indica i luoghi dove realizzare attività di ricerca e prospezione.

L’ORDINE DEL GIORNO ALLA MANOVRA CHE SCOMBINA TUTTO

Indicativo però per capire la posizione attuale dei partiti italiani è anche un ordine del giorno alla legge di Bilancio presentato dai deputati di Alternativa che chiedeva al governo di “emanare una disposizione normativa al fine di vietare il rilascio di nuovi permessi di prospezione e ricerca e di idrocarburi e nuove concessioni di coltivazione di idrocarburi, destinando in tal modo maggiori risorse ad opere di bonifica ambientale dei territori danneggiati dalle attività in oggetto”, come si legge su L’Indipendente. “Niente di particolarmente radicale, insomma. Avrebbero continuato ad essere attive le 171 concessioni di coltivazione di idrocarburi attualmente in concessione e tutti i 1623 pozzi attivi (1298 di gas e 325 di petrolio). Semplicemente l’ODG impegnava il Governo a non concedere nuovi permessi di estrazione, obiettivo tra l’altro in linea con gli impegni presi alla COP26 per contenere le emissioni di carbonio. Il risultato? L’ordine del giorno è stato sonoramente bocciato: 370 voti contrari, solo 19 a favore”, si legge sul sito che aggiunge come a votare contrari siano stati tutta la maggioranza incluso il Movimento 5 Stelle, e il gruppo di Fratelli d’Italia, “che del governo sarebbe la principale forza d’opposizione”.

COSA FANNO GLI ALTRI

Se l’Italia è ferma sotto il profilo delle trivellazioni, gli altri non stanno a guardare. È di questi giorni la notizia che la croata Ina, ad esempio, si è assicurata la produzione di gas naturale nel nuovo pozzo B-1R-DIR che garantirà altri 150 mila mc di gas al giorno alla Croazia. Con una produzione annua di 55 milioni di mc di combustibile, quasi il 7% delle produzione totale. Per riserve totali stimate in 200 milioni di mc che si esauriranno nel giro 5 o 6 anni. Per avere un termine di paragone basti pensare che Campo Giulia al largo di Rivazzurra è già una realtà, nel senso che il pozzo è completato e ha riserve accertate per 550 milioni di mc che non possono essere estratti perché all’interno delle 12 miglia dalla costa.

I NUMERI DEL GAS ITALIANO

I giacimenti attivi sono circa 1.300, anche se quelli che vengono realmente utilizzati con continuità superano di poco quota 500, si legge su La Repubblica. Degli oltre quattro miliardi di metri cubi di gas italiano, il 54,6 per cento arriva dai giacimenti in mare e il resto dalla terraferma, che poi significa dalla Basilicata. Da sola vale il 34% di quel 45% proveniente dai pozzi di terra. In mare invece la zona d’origine del gas è l’Adriatico del nord davanti a Veneto, Emilia-Romagna e Marche. Gran parte della produzione complessiva di gas nazionale registrata nel 2020, si legge nel Pitesai, è ascrivibile alle 17 concessioni più produttive che hanno realizzato complessivamente 3.566 milioni di metri cubi, pari all’81% della produzione nazionale.

DOVE SONO I POSSIBILI NUOVI BACINI DI ESTRAZIONE

Secondo le previsioni del governo questi 2,2 miliardi di metri cubi di nuovo gas (ma c’è una stima più ottimista che parla di 2,5 miliardi di metri cubi) dovrebbero essere recuperati in tre aree, si legge su Il Giorno. La parte del leone dovrebbe farla il Canale di Sicilia. Da due nuovi giacimenti, battezzati Argo e Cassiopea, dovrebbe arrivare l’80% del nuovo gas. E il resto? Un ulteriore 15% dovrebbe arrivare setacciando le riserve nelle acque fra Emilia Romagna e Marche. Si torna al sud per l’ultimo 5%, da recuperare nei fondali del Mar Ionio, nelle acque prospicienti Crotone. Sarebbero invece inutilizzabili per via del Pitesai (il Piano per la transizione energetica delle aree idonee), il giacimento Teodorico al largo di Goro, nel Ferrarese, il giacimento Vega B di fronte alle coste di Ragusa e, soprattutto, stop ai giacimenti ad alta profondità che si trovano nel golfo di Venezia, fra Italia e Istria. Questi ultimi sono stati bloccati nel 1983 per timore che eventuali estrazioni provocassero cedimenti del suolo. La stima è che in quella zona possano esserci fra i 30 e i 40 miliardi di metri cubi di gas.

 

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