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Ecco dove si combatte la guerra invisibile del petrolio

È in atto una guerra invisibile per controllare una delle chiavi del futuro energetico mondiale: il petrolio. Dove si combatte?

Occidente, Cina e Russia stanno giocando una partita silenziosa per mettere le mani sul petrolio dell’Iraq. Mentre le quotazioni del greggio scivolano sotto i 57 dollari al barile (-2,76%), Brent a 60,6 dollari (-2,57%) – e il gas naturale torna a correre (+2,9%), il vero baricentro dell’energia mondiale si sposta in territorio iracheno. Il prezzo del barile nasconde una sfida sistemica che intreccia energia, sicurezza, infrastrutture e potere globale. È a Baghdad che si decide chi controllerà una delle chiavi del futuro energetico mondiale.

PETROLIO, I PREZZI SCENDONO,LE TENSIONI SALGONO

Il ribasso delle quotazioni del petrolio riflette un mix ormai familiare: timori sulla domanda globale, volatilità finanziaria e un mercato che fatica a trovare una direzione stabile. Tuttavia, è solo una calma apparente. Infatti, sotto la superficie dei mercati si muove una competizione strategica sempre più aspra per il controllo delle risorse a più basso costo del pianeta.

L’Iraq è al centro degli appetiti delle grandi potenze, che bramano il suo petrolio a 2-4 dollari al barile di costo di estrazione, le riserve ancora sottostimate e la posizione geografica cruciale tra Medio Oriente, Mediterraneo ed Europa.

TUTTI VOGLIONO IL PETROLIO IRACHENO

Negli ultimi anni Pechino ha giocato d’anticipo per ottenere il controllo del petrolio dell’Iraq. Attraverso gli accordi del 2019 (“Oil for Reconstruction and Investment”) e del 2021 (Iraq-China Framework Agreement), la Cina ha messo le mani su circa il 34% delle riserve provate irachene e su due terzi della produzione corrente. Pechino si è assicurata non solo petrolio e gas a prezzi scontati, ma anche infrastrutture, sicurezza sul campo, porti, aeroporti e corridoi logistici perfettamente integrati nella Belt and Road Initiative. Secondo fonti di alto livello citate da OilPrice.com, se l’Occidente restasse fuori dall’Iraq, accelererebbe la fine dell’egemonia occidentale in Medio Oriente.

L’OCCIDENTE MUOVE I PRIMI PASSI

Le recenti elezioni irachene – e l’incertezza sulla formazione del nuovo governo – hanno riaperto spiragli che le major occidentali non intendono sprecare. TotalEnergies, con il suo maxi-accordo da 27 miliardi di dollari, controlla un tassello chiave per l’aumento della produzione: il progetto di approvvigionamento idrico Common Seawater Supply Project. BP ha recentemente siglato un accordo da 25 miliardi su cinque giacimenti. Chevron ed ExxonMobil osservano e avanzano. Washington, intanto, invita esplicitamente le aziende USA a sostituire i russi di Lukoil nel gigantesco West Qurna 2.

L’IRAQ È IN BILICO

Da Baghdad arrivano segnali ambigui, ma lucidi. Da un lato la Cina viene definita “partner strategico” e primo mercato per il petrolio iracheno; dall’altro nessuno vuole irritare gli Stati Uniti. La linea è quella dell’equilibrismo: tenere Pechino “dalla propria parte” in attesa di capire chi guiderà il Paese, senza chiudere la porta all’Occidente.

Molto dipenderà dal futuro politico del premier uscente Mohammed Shia’ al-Sudani. Una sua riconferma potrebbe ridimensionare – almeno in parte – i privilegi concessi a Pechino. Un cambio di leadership, invece, rimetterebbe completamente in gioco le carte.

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