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Energia, Bessi: Sul gas attivare meccanismo cooperazione tra Stati. Ipotesi estrema ad alti prezzi energia è nazionalizzare

Bessi a Energia Oltre: il modo migliore per raffreddare l’inflazione? Togliere all’energia la funzione di moltiplicatore dell’aumento dei prezzi e, allo stesso tempo, fare partire investimenti massicci sulle rinnovabili e su nuove infrastrutture.

Proseguono gli appuntamenti su queste pagine con il consigliere Pd alla Regione Emilia-Romagna Gianni Bessi, autore del libro ‘Gas naturale. L’energia di domani (Innovative publishing) e di numerosi interventi sulla crisi energetica e le dinamiche geopolitiche a essa collegate.

D: Bessi, è partita l’operazione per rimpiazzare il gas che non acquistiamo più dalla Russia. A che punto siamo?

R: La partita è ancora difficile, nonostante da molte parti si mostri ottimismo. I numeri dimostrano bene la situazione: secondo le rilevazioni dell’istituto Bruegel, a fine agosto, subito prima del blocco del North Stream, Mosca forniva all’Europa 856,8 milioni di metri cubi di gas naturale alla settimana. Un anno fa, nello stesso periodo, arrivavano 2.719,4 milioni di metri cubi. Tutto questo gas va rimpiazzato e non è facile.

Ma sono stati aggiornati i contratti con gli altri paesi produttori.

E questo è vero in parte. L’Algeria, con cui Eni e governo hanno sottoscritto accordi, sta fornendo all’Europa circa 70-80 milioni in più a settimana rispetto ai 583 milioni di metri cubi che garantiva in precedenza. Per il gas libico invece si resta molto al di sotto del potenziale, soprattutto a causa delle difficoltà politiche interne al paese, difficili da prevedere e ancora di più da risolvere. Nello stesso momento, la Norvegia, un altro dei ‘grandi fornitori’ di metano dell’Ue e quindi anche dell’Italia, sempre secondo Bruegel ha diminuito i flussi passando da 2.495,2 a 2.382,7 milioni di metri cubi milioni di metri cubi a settimana.

E questo fatto a che conclusioni ci porta?

Che sostituire il gas russo è più difficile del previsto e che il prossimo inverno rischia comunque di scarseggiare.

Non è una bella prospettiva. Quali altre soluzioni ci sarebbero?

L’unica fonte in grado di coprire il fabbisogno europeo in questo momento è il Gnl, il Gas naturale liquefatto, che l’Europa acquista soprattutto dagli Usa. Sempre appoggiandoci ai numeri, un anno fa importavamo 1.074,4 milioni di metri cubi di Gnl a settimana e ora siamo arrivati a 2.390,1 milioni di metri cubi.

Ma il Gnl ha un problema…

Esatto, il suo prezzo, che è più alto di quello del gas che arriva via pipeline. Il Gnl che l’Europa sta acquistando è quello che i produttori americani hanno dirottato dai clienti asiatici. Del resto noi siamo disponibili a pagare un prezzo più remunerativo, che come abbiamo visto ha raggiunto quote ‘folli’ alla borsa Ttf di Amsterdam. L’Europa sta provando a rispondere, anche con un possibile price cap, al prezzo del metano del tutto fuori controllo, anche per l’uso che ne sta facendo la Russia come ‘arma di ricatto’, ma intanto i paesi membri stanno facendo a gara per comperare le navi rigassificatrici.

Intanto per l’inverno l’Ue ha definito un regolamento per ‘costringere’ gli utenti a consumare meno.

Sarà una specie di lockdown elettrico per usare un concetto che è diventato famigliare durante la pandemia, che verrà attuato a monte, cioè dai distributori di energia. Grazie ai contatori intelligenti dalle 8 alle 19 verrà abbassata la potenza di circa un kilowattora: per esempio, una famiglia con un contratto da 3,3 kilowattora ne potrà utilizzare solo 2,5, che non sono sufficienti per fare lavorare insieme lavastoviglie e forno o lavatrice, se nello stesso tempo il frigorifero e la tv restano accesi.

Una misura molto ‘forte’, quindi, ma non sarebbe meglio puntare sull’istituzione di un price cap sul gas?

In realtà l’emergenza gas è costituita da due elementi entrambi fondamentali: prezzo e disponibilità. E sono il riflesso di una medesima situazione: oggi il prezzo veicola un messaggio di scarsità, ma non è detto che aumenta la disponibilità si risolve anche la questione prezzo. Allo stesso modo a seconda di come sarà definito il price cap si potrebbe avere un maggiore problema di disponibilità. Quello che voglio dire è che è una situazione più complicata di come viene presentata. Pensiamo per esempio a come ci si comporterà, una volta definito un eventuale tetto al prezzo del gas, nei confronti del Gnl di provenienza Usa. Non è un particolare di poco conto.

Insomma non se ne esce…

È un percorso a ostacoli, certamente. Oggi appare più grave il problema del prezzo, su cui l’Europa prova a intervenire. Ma il tema della disponibilità, per esempio, che era è stato accantonato grazie al fatto che gli stoccaggio stanno arrivando al 90 per cento, in primavera tornerà prepotentemente sul tavolo. Quest’anno l’Italia ha beneficiato di piene forniture dalla Russia fino a giugno, ma cosa succederà all’inizio del 2023? Il presidente degli industriali Carlo Bonomi ha affermato che all’Italia potrebbero mancare 4 miliardi di metri cubi: sembra una quantità esigua, ma in realtà è sufficiente a mettere in ginocchio l’intero sistema produttivo italiano.

Servono azioni efficienti e rapide, quindi.

E la risposta non può che venire da soluzioni infrastrutturali che diano certezze definitive. La prima riguarda le navi-rigassificatori, a cominciare dalla Golar Tundra, acquistata dalla Snam per 350 milioni di dollari e in grado di trasformare dallo stato liquido a quello gassoso 5 miliardi di metri cubi di gas all’anno aumentando la capacità di rigassificazione nazionale del 6,5 per cento.

Non sarebbe utile andare alla ricerca di altri fornitori?

Sì, e potenzialmente ci sarebbero anche. Per esempio, una cospicua fornitura di gas potrebbe venire dai giacimenti del Mediterraneo orientale, dove però per il momento non ci sono infrastrutture adeguate. A Cipro per esempio, o si costruisce una nuova pipeline, per la quale servono investimenti ingenti, oppure si deve puntare sulla flessibilità garantita dal gas liquefatto. In Egitto esistono già due poli di gassificazione e dal punto di vista logistico siamo a due-tre giorni di nave da Ravenna, un tempo molto più ragionevole rispetto a quanto serve a una nave per arrivare dal Golfo Persico, circa un mese, o dall’America, con evidenti vantaggi di costo e ambientali.

Una conclusione che si può trarre dal quadro che ci ha delineato è che sulle fonti energetiche, soprattutto sul gas, si sta combattendo una sorta di ‘guerra fredda’ internazionale.

Questa è la mia opinione. Se guardiamo alla situazione mondiale, stiamo assistendo a una guerra convenzionale in Ucraina, innescata dall’invasione russa, a un conflitto per il momento esclusivamente di ‘posizione’ e di ‘ provocazione, mi si passi il termine, a Taiwan, e una guerra energetica che incide sull’economia quotidiana di famiglie e imprese, con conseguenze pesanti come l’aumento dell’inflazione. Alle spalle di questi conflitti ce n’è un altro. Quello monetario.

Che vede ancora la Cina in primo piano…

Esatto. Mentre il dollaro diventa sempre più forte, a fine luglio la Cina ha deciso di ridurre sotto il trilione di dollari il suo apporto al debito USA. È un inizio di decoupling finanziario cinese sul debito americano in suo possesso? Non lo so, ma il fatto è che a metà agosto i cinesi hanno preso anche la decisione di effettuare un delistening da 310 miliardi di dollari delle spa cinesi dalla borsa di New York. La crescita della Cina secondo il Fondo monetario internazionale a fine anno sarà del 3,3 per cento. In netta contrazione rispetto alle previsioni. Questo sicuramente è dovuto alla politica ‘zero covid’, ma non solo. Forse c’è anche la volontà del Dragone di condizionare la crescita economica interna per influenzare anche quella internazionale.

Tornando alla ‘guerra energetica’, l’Europa cos’altro potrebbe fare?

Se è vero che l’energia è un bene primario, da cui dipende la stessa tenuta delle nostre economie e del nostro tessuto sociale, bisogna sottrarre l’energia ai giochi del mercato e della speculazione. L’Ue dovrebbe quindi favorire azioni di controllo pubblico delle fonti e dei canali di distribuzione in tutti i Paesi dell’Unione e attivare un meccanismo di cooperazione rafforzata tra gli Stati che hanno, fra le tante ipotesi di intervento, anche quella di nazionalizzare il settore energetico. Lo so che molti storcono il naso sentendo parlare di nazionalizzazione, ma in situazioni estreme servono rimedi estremi, anche se temporanei.

Ma le nazionalizzazioni peserebbero sui conti pubblici.

Abbiamo avuto un esempio recente di come si può combattere una guerra globale: la pandemia da Sars Cov2. Prendiamo spunto proprio da come abbiamo e stiamo affrontando il Covid. Nel nostro caso, le risorse pubbliche necessarie a riacquisire il controllo del settore non dovrebbero rientrare nel conteggio del debito/deficit e gli squilibri nei bilanci degli enti energetici nazionali, ma andrebbero finanziate dalla emissione di obbligazioni acquistate dalla Bce. Del resto, qual è il modo migliore per raffreddare l’inflazione? Togliere all’energia la funzione di moltiplicatore dell’aumento dei prezzi e, allo stesso tempo, fare partire investimenti massicci sulle rinnovabili e su nuove infrastrutture. Ma per il momento si sta scegliendo un’altra strada, l’aumento dei tassi e la stretta monetaria. E a mio avviso questa non può essere l’unica ricetta.

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