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Il Pacchetto Omnibus frena la sostenibilità e crea caos. Parla il prof Zucca (Bocconi)

 La revisione di Bruxelles snatura la Due Diligence di Sostenibilità Aziendale e la Corporate Sustainability Reporting Directive, riduce gli obblighi di trasparenza e rischia di rendere il sistema europeo meno competitivo persino rispetto alla Cina. L’intervista al professor Zucca (Bocconi)

Il pacchetto Omnibus rischia di “generare ancora più caos” tra le aziende, invece di semplificare la strada verso la sostenibilità. Le nuove norme snaturano gli obiettivi della Due Diligence di Sostenibilità Aziendale (CSDDD) e della Corporate Sustainability Reporting Directive: la totale trasparenza sull’impatto ambientale e le iniziative green delle imprese. Il pacchetto Omnibus introduce “un meccanismo che distorce completamente il sistema che è stato pensato inizialmente” rendendo la rendicontazione meno comparabile e più interpretabile, spiega il professor Fabrizio Zucca, Academic Fellow presso la Bocconi Business School, Membro del Comitato Scientifico di Eurispes e Fondatore della Strategia & Sviluppo Consultants, nell’intervista rilasciata ad Energia Oltre. Un dietrofront sulla sostenibilità che rischia di rendere le norme europee anacronistiche rispetto all’evoluzione del mondo. “La Cina ha approvato l’equivalente della sua CSRD, i CSDS (Corporate Sustainability Disclosure Standards), un quadro normativo per la rendicontazione di sostenibilità obbligatoria nelle catene di fornitura. Rischiamo di operare su una normativa cinese ancora più restrittiva della nostra”, sottolinea Zucca.

LE NOVITA’ DEL PACCHETTO OMNIBUS

Con un tratto di penna, Bruxelles restringe gli obblighi della Corporate Sustainability Reporting Directive alle sole imprese con oltre 1.000 dipendenti e 450 milioni di fatturato, cancellando anche l’obbligo di dotarsi di un piano di transizione climatica. E non va meglio sul fronte della Due Diligence (CSDDD), dove gli obblighi sopravvivono solo per i colossi da 5.000 dipendenti e 1,5 miliardi di ricavi. Sparisce anche il quadro giuridico europeo che avrebbe consentito ai cittadini di chiedere conto alle imprese degli impatti lungo la supply chain, svanendo anche la promessa di uniformità normativa.

Siamo di fronte ad uno snaturamento della Due Diligence di Sostenibilità Aziendale (CSDDD) e della Corporate Sustainability Reporting Directive?

“Sì, basti pensare che l’obiettivo iniziale era garantire una totale trasparenza sulle componenti non finanziarie per l’applicabilità di questa direttiva alle aziende. Si passa da una platea forse troppo estesa a una decisamente più contenuta. La semplificazione avviene ancora prima di una effettiva applicazione. Da un punto di vista tecnico il problema è anche come è stato fatto questo arretramento: i cosiddetti data points sono stati ridotti, le informazioni standardizzate richieste nel sistema di regolamentazione mentre i quality disclosure sono identici. Questo genera un sistema molto meno comparabile e più aperto a potenziali interpretazioni diverse. Quindi, la valutazione sarà più problematica. Nascerà anche un problema nel capire quali siano le effettive informazioni nell’ambito della disclosure”.

Mi sembra paradossale se consideriamo che uno dei limiti principali delle due direttive riguardava la carenza di professionalità in grado di redigere i report richiesti…

“Sì, si sarebbe potuto risolvere il problema con un’applicabilità della norma più graduale. Più che intervenire sui contenuti si poteva intervenire sul meccanismo di entrata in vigore. È vero che ci sono pochi esperti che possono supportare le imprese nel redigere. Il tema è che per una problematica così tecnica è difficile trovare un taglio fondamentalmente politico”.

Dobbiamo aspettarci problemi anche in relazione ad altre tematiche che toccano l’ambiente e l’energia?

“Una serie di principi alla base di materie prime critiche, economia circolare e Green Claims presuppongono una struttura compatibile con la CSRD per come era stata concepita all’inizio. Di conseguenza, le modifiche fanno emergere diversi elementi problematici. Il primo riguarda la direttiva Green Claims, che obbliga ad avere un sistema di rendicontazione per creare strutture di life cycle assesment. Tuttavia, le aziende dovranno trovare soldi per farlo non avendo una base sistemica. Il fatto che un’impresa non abbia obblighi di rendicontazione sostenibile ma debba continuare ad usare il Green Claim per verificare e certificare che quello che dice risponda a criteri di sostenibilità fa sì che siamo punto e a capo. Il rischio è di avere 1000 sistemi per 1000 diversi scopi che creano un grande caos e costano molto di più rispetto ad avere un unico sistema, che rappresenta il modello di business transformation.

Quali altri problemi potrebbero sorgere?

“Per quanto riguarda le materie prime critiche, determinate categorie dovranno assicurare una percentuale di riciclo delle materie e contenuti minimi. Per fare questo, sarà necessario tenere contabilità fisica delle materie prime critiche, che includono minerali molto comuni. Se non aumentiamo il riciclo di questi prodotti in modo sostenibile perderemo competitività”.

Mi lascia perplesso il fatto che sia stato eliminato anche il quadro giuridico europeo che permetteva ai cittadini di chiedere conto alle imprese degli impatti delle loro catene di fornitura su diritti umani ed ecosistemi locali. Cosa ne pensa a proposito?

“Anche questo è un aspetto che in qualche modo riduce la forza della normativa e non elimina le problematiche di contenzioso. Bisogna ricordare che le norme europee vengono poi applicate in un insieme di normative differenti. La possibilità di contenzioso rimane, ma la responsabilità civile poteva portare verso un’omologazione delle norme prodotte in Europa. Va considerato un altro aspetto. In diverse giurisdizioni europee una serie di violazioni di diritti umani e legati al lavoro possono costituire fattispecie di reato e sono perseguibili. Basti pensare a quanto sta succedendo per tante aziende di moda commissariate per il lavoro forzato. Con il pacchetto omnibus si crea ancora maggiore incertezza, invece di offrire standard per tutti gli Stati Ue”.

Secondo lei è l’eccessivo zelo normativo europeo in materia ambientale la causa di bassa crescita economica e perdita di posti di lavoro, come affermano i più critici? Il tentativo di Bruxelles di rivedere questa normativa attraverso pacchetti definiti “omnibus”, che comprendono misure trasversali, è una scelta saggia secondo lei?

“Il Green Deal è stato costruito in più di dieci anni. Arrivare a un taglio orizzontale dovuto ad esigenze politiche dopo uno sforzo notevole dal punto di vista tecnico è un meccanismo un po’ grossolano che porterà più problemi che benefici. Quando parliamo di sostenibilità si parla sempre della catena del valore, non solo di un singolo anello. Il tema della bassa crescita in Europa esiste da almeno 20 anni, che si accusi il Green Deal di generare questo problema è pretestuoso. È un posizionamento ideologico legato a uno spostamento dello spettro politico. La transizione energetica può favorire l’innovazione e la maggiore efficienza del sistema. L’innovazione distrugge segmenti e crea altri, bisogna accompagnarla con azioni di riqualificazione delle persone. Far credere che sia la transizione la causa della perdita di competitività è falso e genera un’aspettativa non realistica e fa sì che le imprese poco abituate a guardare al futuro pensino che si può vivere di rendita”.

Lo stesso retromarcia potremmo vederlo anche nelle quattro ruote

“La transizione elettrica rientra nell’ottica dell’efficientamento tecnologico dei sistemi. Tornando indietro sull’elettrico si fa un favore all’industria dei carburanti fossili. Credo che dietro questo discorso ci sia un impianto ideologico sposato da uno schieramento politico”.

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