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Petrolio, economia, Covid-19. Come si muovono gli Usa

Tutte le mosse degli Stati Uniti su più fronti nel Taccuino estero di Marco Orioles

PACE FATTA TRA MOSCA E RIAD SUL PETROLIO

Alla fine, il grande compromesso sul petrolio è arrivato facendo tirare un sospiro di sollievo ad un’industria colpita più di altre dall’emergenza Covid-19.

Il summit dei ministri dell’energia del G20 celebratosi virtualmente venerdì a Riad si è infatti concluso con l’attesa decisione di tagliare la produzione globale di circa 10 milioni di barili a maggio e giugno e di effettuare ulteriori e graduali riduzioni di qui al 2022.

Le aspettative erano elevate su un meeting che avrebbe radunato i maggiori produttori OPEC e non OPEC – inclusi Usa, Stati Uniti e Canada – in una sorta di riedizione d’emergenza di quel formato OPEC+ collassato improvvisamente il mese scorso a causa della discordia tra Russia e Arabia Saudita sui tagli auspicabili in questo momento eccezionale.

Conscio delle tensioni che caratterizzano attualmente le relazioni tra due dei maggiori produttori della terra, Donald Trump ne ha voluto prudentemente sentire prima i vertici – il presidente russo Vladimir Putin e il principe saudita Mohammad bin Salman – in una conference call.

Zar Vladimir, dal canto suo, ha preso di sua iniziativa il telefono per ripassare la lezione col collega Usa prima e con MBS poi.

Il risultato di tanti sforzi è stato alla fine premiato – Russia e Arabia Saudita si accollano il grosso dei tagli concordati, pari a 8,5 milioni di barili complessivamente – ma non senza fare i conti con una spina nel fianco: quella di un Messico riluttante a fare la sua parte.

Fermo sul suo rifiuto di tagliare 400 mila barili, il presidente Manuel Lopez Obrador ha alla fine ceduto al pressing del collega Usa che ha messo sul piatto un onorevole compromesso: i barili saranno solo 100 mila, cui si aggiungeranno altri 250 mila alla cui produzione sarà l’America a rinunciare a titolo di “compensazione”.

In attesa di capire la reazione di mercati che non apriranno prima di lunedì, le notizie da Riad non hanno scaldato gli analisti.

Per Stephen Innes di AxiCorp i tagli concordati a Riad sono infatti “meno di quanto sperasse” un mercato duramente colpito dall’emergenza Covid-19. Di qui la convinzione di Innes che “la tempesta per i prezzi del petrolio sarà completamente dissipata solo quando saranno finiti i lockdown” in giro per il mondo.

Anche per Rystad Energy l’accordo non è stato sufficientemente coraggioso né all’altezza della missione che i ministri si erano dati, ossia ridare equilibrio ad un mercato dell’energia sconquassato dal Coronavirus.

“Il taglio proposto di 10 milioni di barili”, osserva infatti la società, ha sì l’effetto di allontanare lo spettro di riserve colme sino all’orlo ma inutilizzate e quello non meno cupo di prezzi precipitati “nel più profondo abisso”.

“Ma non riuscirà – è la conclusione di Rystad Energy – a ripristinare l’equilibrio di mercato desiderato”.

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VENTI DI RECESSIONE NEGLI USA?

Ormai non sono più solo voci isolate quelle che negli Usa evocano la parola più terrificante di tutte: recessione.

Un indicatore, almeno, pare testimoniare che la prova del Covid-19 sta stremando l’America: la disoccupazione.

Sono ormai 17 milioni, scriveva nel weekend il Washington Post, gli americani che si sono presentati agli uffici per l’impiego a presentare domanda di sussidi e altri benefit.

A quella cifra si è arrivati peraltro con gran velocità dopo il record di domande (6,9 milioni) presentate due settimane fa e quello leggermente inferiore (6,6 milioni) della settimana scorsa.

Gli effetti della disoccupazione di massa, osserva il Wapo, sono ormai visibili in tutti gli States sotto la forma delle code chilometriche di auto incolonnate per ricevere aiuti alimentari e di quelle umane alle porte dei ristoranti che offrono pasti gratuiti ai bisognosi.

Ma il problema del lavoro nell’America sfiancata dal Covid-19 non assume la sola forma della disoccupazione, e non sembra essere nemmeno il più grave.

Che dire infatti dell’analisi fatta dal McKinsey Global Institute secondo cui dai 42 ai 54 milioni di posti di lavoro negli Usa (su un totale di 150) sono esposti alle conseguenze dell’emergenza che si tradurranno per i lavoratori (soprattutto per quelli più colpiti dei settori della ristorazione e delle vendite al dettaglio) non solo nella perdita dell’impiego, ma anche in riduzioni di orario o di paga o in congedi temporanei e senza stipendio?

E considerato che l’86% di questi lavori a rischio è retribuito con meno di 40 mila dollari l’anno – a fronte dei 68 mila circa di reddito medio di una famiglia americana di quattro persone – ecco che lo spettro della povertà si fa davvero tangibile.

E se non perdono il lavoro, gli americani perdono comunque la fiducia nelle vesti di consumatori, come dimostra il forte calo del relativo indice come misurato dall’Università del Michigan in quello che i ricercatori hanno definito il tonfo più poderoso nella lunga storia statistica di questo indice.

Ecco perché, interpellato su questa situazione dal giornale della capitale, l’economista di Princeton Alan Blinder non ha potuto fare altro che ammettere al Wapo di “non aver mai visto nulla del genere” e spiegare che quello che sta succedendo “sembra proprio potersi qualificare come depressione”.

Le previsioni di JPMorgan Chase sembrano peraltro dirci che il peggio deve ancora venire, se è vero che la disoccupazione toccherà quota 20% e l’economia si contrarrà del 40% nel secondo quadrimestre.

Chi non se la sente di abbandonarsi alla disperazione è l’ex n. 1 della Fed Ben Bernanke, per il quale “la durata di questo calo sarà probabilmente più breve” di quella registrata nei dodici anni della Grande Depressione”.

Parole condivise dall’attuale reggente della Banca Centrale, Jerome H. Powell, per il quale la pur “allarmante” velocità con cui la disoccupazione sta crescendo “dopo 50 anni di vette negative” delinea un fenomeno che sarà solo “temporaneo”.

Tutto dipenderà naturalmente, ha spiegato Powell, da quando l’emergenza sarà rientrata e la Corporate America riaprirà i battenti.

“Quando il virus” avrà smesso di uccidere – è il pensiero che il capo della Fed ha illustrato al pubblico della sua conferenza tenutasi venerdì alla Brookings Institution di New York – “e sarà sicuro tornare al lavoro e aprire negozi e imprese, allora ci dobbiamo aspettare che ci sia una rapida ripresa”.

Sul cauto ottimismo di Bernanke grava tuttavia un’incognita: nessuno ancora può pronunciarsi sulla data in cui sarà tutto finito, a partire dal lockdown.

Il tema riaprire/non riaprire ha dominato non a caso gli show tv della domenica, durante i quali il popolo americano ha potuto ascoltare i pareri discordanti di personalità come il n. 1 degli scienziati della task force governativa anti-Coronavirus, Anthony Fauci.

Parlando dalle frequenze della CNN, il direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases ha gelato il sangue dei trumpiani e di tutti coloro che tifano per la fine immediata del lockdown.

“C’è sempre la possibilità”, ha spiegato infatti Fauci, “che entrando nel prossimo autunno, o all’inizio dell’inverno, ci sia un rimbalzo” di casi di Covid-19.

Ne è convinto anche Christopher Murray, direttore del Washington’s Institute for Health Metrics and Evaluation, che alla trasmissione “Face the Nation” della CBS ha profetizzato un nuovo picco di contagi qualora le disposizioni federali e locali sul contenimento del virus, e quelle sul distanziamento sociale in particolare, fossero allentate già all’inizio del mese prossimo.

Anche per Tom Inglesby, direttore del Center for Health Security della John Hopkins University ospite ieri di “Fox News Sunday”, “riaprire il paese il 1 maggio” sarebbe prematuro.

Se questo era lo spartito della domenica, non potevano mancare le note di stampo politico.

Si segnalano così da un lato l’editoriale sul New York Times dell’ex vicepresidente e oggi candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden intitolato “Il mio piano per riaprire in sicurezza l’America”

E, sulla sponda opposta, il post su “Medium” del leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, sui “piani” elaborati in questo momento dai membri del Congresso come lui per “rimettere in moto di nuovo l’America”.

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COVID-19 E RETAIL NEGLI USA: RIVOLUZIONE IN VISTA?

Lungi dall’avere solo effetti passeggeri, il Covid-19 potrebbe innescare trasformazioni profonde e radicali dell’economia a stelle e strisce, accelerando processi che altrimenti avrebbero richiesto anni per completare la loro parabola.

È certamente il caso – segnalato ieri nella newsletter di Axios – del settore retail, che negli States è stato duramente colpito ma con la rilevante eccezione dei giganti della distribuzione e del commercio on line, che hanno invece cavalcato l’emergenza aumentando di non poco i rispettivi volumi di vendite.

I dati a tal proposito parlano chiaro: nel mese di marzo in America il commercio al dettaglio è crollato del 60%, secondo i calcoli di  Coresight Research.

A soffrire sono in particolare le piccole ditte – i famosi “Mom-and-pop retailers” a cui è rivolto non a caso il programma Paycheck Protection Program che gli assicurerà prestiti federali con cui sopravvivere (forse) in questa emergenza.

Ma a patire sono anche le catene di medie dimensioni: le varie Sears, JCPenney, Neiman Marcus e J. Crew che, come scrive la CNN, avevano già svariati problemi prima della crisi ma ora potrebbero ricevere il colpo di grazia dal Covid-19 (“may not be able to survive the coronavirus crisis.”)

L’emblema di questa situazione sono probabilmente i migliaia di dipendenti che due brand molto noti come Macy’s e Gap hanno messo in congedo senza stipendio. Uomini e donne che peraltro, secondo Sucharita Kodaly, analista di Forrester Research, alla fine dell’emergenza potrebbero non ritrovare più il loro posto di lavoro.

Tutt’altra situazione invece si registra nel campo dei Big, dove i trend sono letteralmente rovesciati: basti pensare ai 250 mila lavoratori che Amazon e Walmart si apprestano ad assumere per tenere testa ad una domanda in continuo aumento.

Domanda che nel mese di marzo ha infatti registrato per quasi tutti un vistoso segno + nelle vendite: da Walmart (+20% di acquisti nei suoi punti vendita e +30’% per l’on line), a Target (25%) a Costco (12%).

Ma a fare la parte del leone è Amazon, per il quale il virus venuto da Wuhan ha rappresentato una vera e propria benedizione: Recode stima infatti una crescita delle merci vendute sulla piattaforma di e-commerce più famosa al mondo del 35% rispetto al marzo 2019.

Se guardiamo i dettagli rivelati da CommerceIQ, scopriamo che alcuni beni su Amazon vanno letteralmente a ruba, con le vendite di cibo per animali cresciute di quasi dieci volte (947%), quelle di farmaci per raffreddore e influenza aumentate di ben l’861%, quelle di sapone del 512% e quelle di patatine del 376%.

L’emergenza si è rivelata provvidenziale anche per un investimento di Amazon cospicuo ma molto chiacchierato per le difficoltà incontrate dal suo lancio: la consegna a domicilio di generi alimentari, per la quale è improvvisamente divenuta esuberante la disponibilità di cittadini pronti ad aprire un punto vendita.

 

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