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Accordo Putin Erdogan Per Il Gas

Perché per la Russia la Turchia è strategica per il gas (e non solo)

L’accordo tra Putin ed Erdogan sul gas rivela ancora una volta l’ambiguità della potenza anatolica. Ma rinunciare ad Ankara è tortuoso

La guerra all’Ucraina da parte della Russia è presto diventata una guerra anche energetica. Rivolta all’Europa, colpevole di essersi inginocchiata alle forniture di Gazprom. Ma nel mezzo tra i due poli, tra quelli che un tempo erano i due blocchi – oggi più allargati, forse meno definiti ma spesso somiglianti – c’è un attore ambiguo che ondeggia e sfrutta i vantaggi relazionali con entrambe le potenze di riferimento. La Turchia. Che fa parte sì della Nato ma che non nasconde neanche per un po’ la sua vicinanza di interessi con la Federazione Russa.

ANKARA HUB DEL GAS, ACCORDO PUTIN-ERDOGAN

L’ultimo e più recente tassello di questa navigazione un po’ di qua e un po di là – più verso lo Zar che verso la Casa Bianca – è l’accordo sul gas raggiunto da Putin e Erdogan. Il quale sul piano delle sorti della guerra sta giocando da mesi un ruolo – forse l’unico a farlo davvero – diplomatico e di mediazione per la conclusione delle ostilità. Vedasi la questione del grano di Kyiv.  Invece, e di più, sul piano energetico continua a imporre ancor meglio la propria logica, il proprio interesse.

L’accordo raggiunto al Conferenza per l’interazione e le misure di fiducia in Asia (Cica) di Astana nella giornata di ieri prevede la nascita di un centro di approvvigionamento del gas in terra anatolica. “Per quanto riguarda questo hub, che potremmo creare insieme ovviamente, sarebbe anche una piattaforma non solo per le forniture ma anche per determinare il prezzo, perché è una questione molto importante – la questione dei prezzi”, ha detto Vladimir Putin a Recep Tayyip Erdogan. La prima menzione del progetto era però arrivata mercoledì al forum russo dell’energia. Il presidente turco non si è espresso in merito ma è difficile pensare che gli dispiace essere un riferimento, un’attrazione per l’ex Paese sovietico. Che, con l’Europa alle prese con la derussificazione della propria strategia energetica, deve riorientare i propri flussi di petrolio e gas. Verso la Cina e l’India sì ma non solo.

TANAP PER LA TURCHIA

Andando, ma non troppo, più in là della mera cronaca bisogna toccare un tasto importante della strategia energetica turca. Quello del gasdotto Tanap. Sul quale, per la verità, sono emerse notizie di più stretta attualità anche negli ultimi giorni. Infatti,  dopo il Consiglio dei Ministri di tre giorni fa, Erdogan ha annunciato che insieme all’Azerbaigian sono iniziati i lavori per aumentare la capacità di trasmissione di Tanap a 32 miliardi di metri cubi. Un raddoppio, in pratica.

Il gasdotto è rilevante perché copre l’area transanatolica, attraversa ben venti province turche e prosegue il percorso di collegamento energetico che in Azerbaigian è compiuto dal SCP, il tubo del Caucaso meridionale. A prenderne le veci, poi, è il gasdotto Tap che dalla Grecia arriva in Italia (a Melendugno). Interessato a sua volta da progressivi aumenti di capacità. L’anno scorso registrati in quota pari a circa otto miliardi di metri cubi, quest’anno saliti a 9,1 e fino agli undici programmati per il 2023. Tanap è gestito da Socar con compartecipazione della turca Botas, ed è attivo da quasi tre anni. Soddisfacendo per Ankara almeno il 12% del suo fabbisogno (oggi salito al 15%).

LA LIBIA ANATOLICA, A SCAPITO DI ATENE

Nelle parole in CdM citato sopra, il presidente turco ha anche detto che “l’accordo sugli idrocarburi con la Libia ha creato una nuova area di cooperazione nel campo della produzione di petrolio e prodotti petroliferi nella parte continentale di questo paese“. Ne abbiamo parlato ampiamente su questo giornale.

Tripoli e Ankara hanno firmato un’intesa che garantisce al paese ottomano l’esplorazione offshore di idrocarburi. Il MoU, sigla di Memorandum of Understanding, si collega direttamente a quello del 2019. Tre anni fa, infatti, i due paesi avevano raggiunto un controverso accordo di delimitazione marittima che aveva suscitato l’ira dell’Unione europea.

Perché controverso? Perché estendeva a libero piacimento il concetto di Zee nel Mediterraneo orientale. Due lunedì fa, invece, una delegazione turca di alto livello che comprendeva in particolare i ministri dell’energia, Fatih Dönmez, della difesa, Hulusi Akar, e del commercio, Mehmet Mus si è precipitata a Tripoli per “sviluppare progetti legati all’esplorazione, alla produzione e al trasporto di petrolio e gas”, ha spiegato il portavoce del governo di Tripoli, Mohamed Hamouda, in un post su Facebook.

Ad opporsi all’intesa è stato il governo dell’est del paese nordafricano, guidato da Khalifa Haftar. Il quale ha definito l’accordo firmato lunedì come “illegale e inaccettabile”. E anche il governo sostenuto dal campo orientale si riserva “il diritto di ricorrere alla giustizia” per ottenere la sua cancellazione. Ma non solo. Anche la Grecia si vede fortemente intaccata da quanto siglato non più tardi di 24 ore fa. Infatti, l’appropriazione indebita da parte turca di quelle acque nel Mediterraneo orientale tradisce i diritti sovrani di Atene. E il ministro degli Esteri Nikos Dendias ha definito “illegale” l’intesa di tre anni fa.  L’aggettivo, insomma, fa capire tutto. Ed è stato condiviso dal governo egiziano. Sameh Shoukry, ministro degli Esteri de Il Cairo, ha detto che il mandato delle autorità a Tripoli è “scaduto” e che “il governo di Tripoli non ha la legittimità di firmare accordi”.

IL SULTANO SI PRENDE IL MEDITERRANEO E NON MOLLA MOSCA

La potenza di Erdogan sul gas è, insomma, evidente. E basta coglierla sempre dall’allargamento nel Mediterraneo. Ad agosto si è svolta la quarta perforazione nella Blue Homeland, area contesa con Grecia e Cipro. Già due mesi fa, tra l’altro i timori di un accordo con la Libia erano diffusi presso la stampa ateniese.

La campagna di esplorazioni di Ankara ha ottenuto nel 2021 la scoperta di risorse per 400 miliardi di metri cubi nel Mar Nero. A giugno, Erdoğan ha inaugurato la posa del gasdotto nel Mar Nero. L’obiettivo è estrarre dal giacimento di Sakarya (la cui riserva stimata è di 320 mld di m³) 10 mld di m³ di gas naturale entro marzo 2023.

Entro il 2026, invece, il governo turco punta a soddisfare il 25% del suo fabbisogno di gas dai giacimenti specifici scoperti. L’obiettivo è abbandonare le forniture di Mosca. Orizzonte lontano e tra l’altro in contraddizione con le recenti volontà di Ankara. “La Turchia intende estendere i contratti per l’acquisto di gas naturale da Russia, Azerbaigian e Iran”, ha detto il ministro dell’Energia Fatih Donmez a luglio. Quando la guerra, comunque, già era in corso. Nonché con l’accordo di ieri tra Putin e Erdogan. “Le turbine Russian-made saranno utilizzate per il trasporto di gas attraverso nuove gambe previste del gasdotto Turkish Stream nel Mar Nero”, ha detto oggi il Ceo di Gazprom Alexey Miller sempre in riferimento al legame con la potenza anatolica.

Attualmente, la Turchia acquista il 44,9% del gas dalla Russia, il 16,1% dall’Iran e il 15% dall’Azerbaigian.

LA TURCHIA RIMANE AMBIGUA MA NECESSARIA

Insomma, questa postura turca è pane per i denti per la Russia. Perché il legame (anche) energetico c’è e non tramonterà presto. Ormai trattare senza Ankara è impossibile. Tanto per l’Occidente quanto per Putin. Le ambizioni di Erdogan sono vaste e coprono le numerose mancanze in politica interna. Coprono, di più, tanto l’ambito militare che quello geopolitico ed energetico.

Difficile immaginare un tandem turco-cinese nell’ottica della mediazione per la fine del conflitto scoppiato in Ucraina il 24 febbraio. Il che comunque rimane una opzione sul tavolo. D’altronde Mosca parla solo con il Sultano. Perché sa, come tutti, che la presenza anatolica nello scacchiere internazionale è pressoché importante.

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