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sostenibilità

“L’Ue ha scelto di investire in armi anziché in sostenibilità. Rinvio dei Bilanci è realismo”. Parla Brusati (SDA Bocconi)

Von der Leyen, investimenti in armi, Bilanci di Sostenibilità, dazi, Trump e  Cina. L’intervista di Energia Oltre a Luca Brusati, Fellow della Divisione Government, Health and Not for Profit della SDA Bocconi e Professore Associato di Economia aziendale presso l’Università degli Studi di Udine

Dopo aver prodotto una mole impressionante di norme, la Commissione Europea ha spostato la lente d’ingrandimento dalla sostenibilità alle armi. “Nel nuovo contesto internazionale si è deciso di dare priorità ai cannoni anziché al burro. Investiamo nei missili e nei carri armati, a volte rasentando la follia se non si definiscono in modo chiaro e condiviso le vere minacce da affrontare”, spiega Luca Brusati, Fellow della Divisione Government, Health and Not for Profit della SDA Bocconi e Professore Associato di Economia aziendale presso l’Università degli Studi di Udine. Von der Leyen, però, non sembra aver dimenticato il tema della sostenibilità. Infatti, il recente rinvio dell’obbligo di rendicontazione dei Bilanci di Sostenibilità rappresenta una decisione di sano realismo, non un “liberi tutti” per le imprese. Tuttavia, la riduzione del numero dei dati rischia di mettere in discussione quello fatto fino ad oggi. Intanto, nel Nuovo Mondo, le politiche di Trump stanno favorendo un rallentamento degli investimenti in ESG e della transizione green delle imprese americane che, stanche degli insuccessi dell’agenda woke, “fanno decommitment rispetto agli obiettivi di sostenibilità, ma “le imprese asiatiche iniziano ad investire davvero”. Intanto, sul fronte dei dazi sembra sempre più probabile che “si arriverà a una situazione un po’ meno estrema di quella che abbiamo avuto davanti agli occhi in queste settimane”, ma l’Ue deve trovare il suo ruolo di fronte alla riarticolazione delle catene di approvvigionamento.

La Commissione Europea nella sua agenda politica ha dimenticato la sostenibilità?

In politica non si può pensare di fare tutto: bisogna scegliere le priorità. La prima Commissione von der Leyen ha prodotto un complesso di norme incredibilmente articolato in materia di sostenibilità: condivisibile negli intenti, ma poco realistico in termini di meccanismi di recepimento. L’attuale Commissione ha deciso su cosa puntare: il tema della sostenibilità ha indubbiamente perso centralità, perché oggi altri temi vengono ritenuti più urgenti. Mi sembra che ora si stia andando radicalmente in un’altra direzione: investiamo nei missili e nei carri armati, a volte rasentando la follia se non si definiscono in modo chiaro e condiviso le vere minacce da affrontare. La ragione è che c’è un diverso schieramento politico che sostiene la von der Leyen, e nel nuovo contesto internazionale si è deciso di dare priorità ai cannoni anziché al burro. Nelle ultime settimane si è poi affermato in modo prepotente il tema del commercio internazionale. A quanto sembra di capire, sul fronte dei dazi si arriverà a una situazione un po’ meno estrema di quella che abbiamo avuto davanti agli occhi in queste settimane, ma è evidente che occorre lavorare a una nuova priorità ineludibile: definire il ruolo dell’Europa di fronte alla riarticolazione delle catene di approvvigionamento.

Cosa ne pensa del possibile rinvio dell’obbligo di rendicontazione dei bilanci di Sostenibilità?

Sulla tematica dei bilanci di Sostenibilità, a mio parere la Commissione Europea ha fatto alcune scelte molto sensate. Il posticipo era nell’ordine naturale delle cose: non c’era nessuna condizione perché si potessero rispettare le scadenze strettissime previste dalla Direttiva. La maggior parte delle imprese interessate ha tuttora un’idea molto vaga degli obblighi, e il testo originale si estendeva a realtà che non hanno nemmeno lontanamente le competenze per realizzare questi documenti. Ad esempio, le imposizioni avrebbero colpito anche una impresa con centoventi dipendenti che commercia pesce ma ha fatturato e attivo di bilancio sopra la soglia, e si qualifica pertanto come “grande” impresa. La soluzione più ragionevole è quella proposta dalla Commissione a fine febbraio, ovvero introdurre l’obbligo di rendicontazione di sostenibilità in modo graduale, cominciando dalle quotate grandissime, passando poi alle grandi e così via. Così facendo, i consulenti che hanno lavorate nelle maggiori aziende possono portare la loro esperienza nelle altre. Allo stesso modo ritengo corretto non equiparare, in termini di responsabilità degli amministratori, i contenuti del bilancio finanziario e del bilancio di sostenibilità. Quando redigo un bilancio finanziario mi baso su logiche consolidate e su standard di disclosure che esistono da molto tempo. È irrealistico prevedere che ci sia la stessa responsabilità giuridica per i contenuti di un documento inventato ieri e che nessuno ancora capisce: è una forzatura ideologica che non ha senso pratico. Su questi aspetti la Commissione ha preso decisioni che denotano un sano realismo, anche se ovviamente c’è il rischio che molte imprese credano che si tratti di un “liberi tutti”, e arrivino comunque impreparate alle nuove scadenze. Altre scelte invece mi lasciano perplesso: nel momento in cui si è detto che gli standard europei per la rendicontazione di sostenibilità recepiti dalla Commissione devono essere rielaborati per ridurre il numero di dati da raccogliere si mette tutto in discussione, e si rischia di ripartire da 0.

Parliamo di dazi, l’Impero del Dragone ha aperto uno spiraglio a un accordo commerciale con gli Stati Uniti, pronti a fare una parziale marcia indietro sulle tariffe aggiuntive sui prodotti made in China. In Ue e Italia si gioca un altro fronte importante, quello delle auto elettriche. Cosa succede?

Nel nuovo scenario internazionale che sembra prefigurarsi, la mia impressione è che l’Ue si stia accorgendo di avere poche carte da giocare rispetto agli obiettivi di policy che vorrebbe raggiungere. Negli anni scorsi si è impostata una politica che prefigurava un superamento in tempi relativamente rapidi dei motori a combustione interna; ma riconfigurare un settore maturo e politicamente “pesante” non è mai indolore. I produttori asiatici continuano a vendere vetture elettriche più competitive di quelle italiane ed europee: per questo motivo, nonostante l’obiettivo della transizione ai motori elettrici, a fine 2024 si è deciso di imporre tariffe che arrivano al 45% sulle importazioni di auto cinesi. Non dobbiamo però dimenticare che i consumatori europei, pur avendo buona capacità di spesa, rappresentano solo il 6% della popolazione mondiale. Nel momento in cui Trump mette i dazi, si decide di fare marcia indietro sulle tariffe aggiuntive e trattare con i leader cinesi. Ne risente anche la credibilità dei leader europei.

La seconda presidenza di Trump fino ad oggi è stata caratterizzata da un’avversione verso l’ideologia woke e l’ambientalismo. Cosa sta succedendo negli Usa?

Stiamo assistendo a un bagno di concretezza: si tratta di una dinamica interessante che in parte rischia di essere travisata. Fino a poco tempo fa imperversava una grande battaglia ideologica che si concentrava su tematiche con una valenza politica o di moda, ma spesso prive di sostanza. Ad esempio, perché un’impresa che vende pesce surgelato dovrebbe concentrare i propri sforzi sulla redazione di un bilancio di genere? Con ogni probabilità ha più senso prevedere che la disclosure si concentri sugli aspetti critici per quello specifico settore, come per esempio l’eventuale presenza di microplastiche nei propri prodotti. La dinamica che osservo è il venir meno dell’investimento in ESG come scelta “politically correct”; molte imprese continuano a lavorare sulla sostenibilità, ma concentrando l’attenzione sulle dimensioni che servono a restare sul mercato o ad affermare la propria superiorità rispetto ai concorrenti.

Le politiche di Trump abbasseranno l’attenzione sulla sostenibilità e rallenteranno gli investimenti in ESG?

Sono convinto che le politiche di Trump, su questo e altri ambiti, siano una conseguenza e non una causa: una precipitazione di determinate situazioni che covavano nella società americana, e alle quali Trump a suo modo dà voce. L’agenda woke, in particolare, era condivisa davvero da piccole élite che dominavano il dibattito pubblico, ma non è mai stata maggioritaria negli Stati Uniti: non a caso, dagli insuccessi delle imprese che si erano esposte troppo in quella direzione è nato il detto “go woke, go broke”. Lo stesso Trump ha bistrattato il dibattito ma ha mostrato sensibilità su alcune tematiche, anche se si fa oggettivamente fatica a capire il filo rosso nelle politiche del presidente americano. Robert Kennedy, per esempio, in qualità di Segretario di Stato alla Salute sta lavorando sulla problematica dei coloranti e soprattutto del contenuto di zucchero degli alimentari, che sono temi di indubbia rilevanza rispetto all’epidemia di obesità che interessa la popolazione americana. Peraltro non dimentichiamo che, se da un lato le imprese americane fanno decommitment rispetto agli obiettivi di sostenibilità, le imprese asiatiche iniziano ad investire davvero: diverse aziende cinesi continuano a confermare i propri impegni green, mentre l’India (oltre un miliardo e quattrocento milioni di persone) si muove per cercare di affrontare in modo serio il problema della sovra produzione di plastica. Il quadro è sempre più articolato di quanto appaia se concentriamo la nostra attenzione solo sui Paesi occidentali.

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