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Gianclaudio Torlizzi

Trump is back: la sfida con la Cina passa dall’energia. Parla Torlizzi (Min. Difesa)

Le mire sulla Groenlandia e le sue materie prime, l’accantonamento delle politiche green di Joe Biden e il nuovo impulso alle trivellazioni petrolifere. È ricominciata l’era Trump. 

“Make America Great Again” non è solo uno slogan da campagna elettorale ma un’indicazione politica che il presidente Donald Trump, fresco di insediamento, intende perseguire costituzionalmente ma a mani, tendenzialmente, libere. La partita nel campo delle relazioni estere si gioca con la Cina. Beni energetici, materie prime, terre rare, diventano strumenti per condurre, con altri mezzi, la battaglia per preservare la corona di superpotenza. Per questo le esternazioni sull’interesse nei confronti della Groenlandia non devono essere lette come boutades ma come tessere di un puzzle che al presidente Trump è molto chiaro. Un quadro nel quale trova un posto di rilievo la politica energetica che darà nuovo impulso alle trivellazioni petrolifere. “Drill, baby drill”, con buona pace dell’Unione europea e del suo Green deal.

Di questi scenari ne abbiamo parlato, su Policymakermag, con Gianclaudio Torlizzi, consigliere del Ministro della Difesa e Fondatore di T-Commodity.

La Premier Giorgia Meloni in conferenza stampa ha rassicurato sul fatto che non vedremo un intervento armato degli Usa né in Canada né in Groenlandia e che le dichiarazioni sopra le righe del presidente Trump erano parte di un dialogo a distanza tra grandi potenze. Perché Cina e Usa sono interessate alla Groenlandia? 

Per due motivi: innanzitutto per la ricchezza mineraria dell’area, di metalli in terre rare di cui la Groenlandia è veramente molto, molto ricca. Quindi c’è un tema legato alle risorse e noi sappiamo che uno dei vulnus principali degli Stati Uniti in questa guerra fredda contro la Cina è proprio dato dal tema delle materie prime. Gli USA sanno benissimo che devono recuperare quel gap nei confronti della Cina per uscire a riuscire a vincere questa guerra o comunque per poter dialogare ad armi pari con i cinesi. Poi c’è il tema della rotta artica. Lo scioglimento dei ghiacciai e i problemi che continueranno a esistere nel Canale di Suez la renderanno fondamentale per il commercio. E in particolare la rotta artica è quella che permetterà alla Russia e alla Cina di poter continuare a commerciare con il resto del mondo.

Ci sono altri paesi interessati a quei territori oppure ce ne sono altri che ingolosiscono di più?

Chiaramente l’Europa, al momento, è uno spettatore in questa competizione tra le due superpotenze, non abbiamo i mezzi e non abbiamo neanche la mentalità che oggi serve per poter sopravvivere in questo nuovo contesto storico. Non vedo, quindi, come l’Europa possa imporre attivamente una sua visione in questo grande gioco tra superpotenze. Tra le altre aree interessanti possiamo dire che sicuramente gli americani punteranno al Sud America che è particolarmente ricco di minerali e credo che l’intenzione della grande strategia americana sia di imporre la sua influenza su tutto il continente americano. Cioè serrare i ranghi, accorciare la catena di comando e avere influenza sull’intero continente americano: dall’Alaska fino all’Argentina.

Per quanto riguarda la politica energetica di Trump che dovrebbe vedere un nuovo rilancio dell’industria petrolifera, in termini di relazioni esterne cosa ci dovremo aspettare?

Bisogna prima capire come e se Trump riuscirà effettivamente nell’obiettivo di aumentare la produzione interna, perché alla fine gli operatori americani sono dei privati e quindi hanno bisogno di prezzi elevati dell’energia per aumentare la produzione. Chiedere di aumentare la produzione per portare giù i prezzi la vedo più dura. Quindi questo è il primo elemento che andrà monitorato. Sul lato della politica estera, gli americani faranno leva, Trump in particolare, sul suo buon rapporto con la leadership Saudita per controbilanciare eventuali sanzioni nei confronti dell’Iran che è, al momento, l’ultimo ostacolo al processo di stabilizzazione del Medio Oriente.

Nell’era Trump non mi aspetto particolari sconvolgimenti nel mercato del petrolio in termini di prezzi, vedo dei fondamentali che sono tendenzialmente bilanciati ma con delle crescenti restrizioni sul lato dell’offerta perché, come abbiamo visto anche l’ultimo pacchetto sanzionatorio nei confronti della Russia, le tensioni sull’offerta rimangono forti. Poi è chiaro che il vero game changer, il vero cambio di paradigma, si otterrebbe se si arrivasse a un congelamento del conflitto tra Russia e Ucraina, allora lì ci potrebbe essere qualche impatto maggiore in termini di prezzi, però poi bisognerà vedere quali saranno i termini dell’accordo.

È pessimista nei confronti del Green Deal e del progetto di transizione energetica?

Vorrei esserlo ma poi vedo in realtà che l’Europa continua imperterrita ad andare avanti. In tempi non sospetti, quattro anni fa, ho scritto un libro, “Materia rara” (ed.  Guerini e associati), in cui denunciavo gli squilibri che le politiche climatiche europee avrebbero esercitato sul comparto energia e sulle materie prime. Son passati cinque anni, si è fatto molto dibattito, c’è una crescente disillusione sul Green in salsa europea però non si riesce a intervenire sugli impianti normativi. L’ultima ciliegina è il CBAM, la Carbon Board Adjustment Mechanism che entrerà in vigore nel 2026 e che darà la mazzata finale a quel poco di industria europea che è rimasta.

Quindi, si andrà a bloccare l’import di materie prime dei paesi extra UE, lasciando completamente libera alla concorrenza estera i prodotti finiti. Quindi c’è uno scollamento dalla realtà veramente preoccupante e folle che noi analisti indipendenti denunciamo da tanti anni. Però, alla fine non si riesce a incidere in maniera importante perché c’è un gruppo di paesi nordici che invece rimane fortemente pro-green, c’è una parte anche dell’opinione pubblica tedesca che rimane fortemente a favore. Questo, probabilmente, nasce da un benessere eccessivo che si è sviluppato negli ultimi decenni e che fa credere alle persone che il progresso arrivi dall’alto ma non è così e gli americani lo stanno capendo.

La transizione energetica climatica che l’Ue ha intrapreso necessita di materie prime non presenti nel nostro territorio. Quali sono le materie prime più critiche delle quali il nostro continente è carente e di cui, quindi, ha più necessità?

In realtà ci sono tre categorie di criticità. C’è la criticità legata alla transizione energetica e che quindi vede metalli come litio, il rame, il nichel, la grafite, funzionali a una maggiore indipendenza sul lato delle tecnologie green, alla costruzione di batterie, di pannelli solari, di pale eoliche e così via. Poi però c’è un’altra criticità legata ai metalli strategici per la difesa, di cui nessuno parla.

Quello che è ancora più strategico oggi per il paese è la costruzione di un carro armato, di un aereo, di un missile. Questo è molto più strategico perché in un contesto di guerra fredda oggi tutto può accadere. L’elemento deterrenza è l’elemento che può garantire la pace. Se non abbiamo capacità di difesa, alimentiamo la guerra. Questo è un concetto che in Italia si fa fatica a far passare. I metalli strategici per il comparto della difesa sono tanti, penso al titanio o all’antimonio.

Poi c’è un tema legato alla strategicità della materia prime per il singolo paese, quello che è strategico per l’Italia non è detto che sia strategico per la Germania o per la Francia. Quindi c’è da fare una riflessione sul tema della carenza di minerali e prodotti raffinati. E poi c’è da capire che i materiali possono essere strategici su più ambiti: ambientale, difesa o industriale. Se non arriva più alluminio nel paese si blocca non solo la produzione di alcune applicazioni militari, ma si blocca anche l’industria civile. Ecco perché è necessario che si ponga mano a un piano di sicurezza nazionale sulle materie prime.

Il Ministero della Difesa sta portando avanti questa battaglia che è fondamentale per il Paese, cioè capire cosa è strategico per l’Italia. Poi, se c’è condivisione con altri paesi è un bene e questo può portare a sviluppare progetti bilaterali o trilaterali o anche europei. Ma se aspettiamo che Bruxelles metta mano alla questione passeranno decenni.

(Estratto dell’intervista a cura di Edoardo Lisi e Maria Scopece pubblicata su Policy Maker)

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