Accordo Italia-Francia sul nucleare? Eolico sardo nella tempesta. I trasporti dello Stretto. La rassegna stampa Energia
Italia e Francia possono trovare terreno comune sul nucleare. Un eventuale accordo potrebbe far scendere il prezzo dell’energia italiana, che già oggi acquistiamo in parte dai reattori transalpini. “L’energia ci costa troppo perché non abbiamo il nucleare, indispensabile nella transizione energetica e nella decarbonizzazione. Acquistiamo elettricità prodotta in centrali atomiche oltralpe ma facciamo finta di niente”, scrive De Bortoli. Nucleare che rappresenta la vera novità rispetto alla prima bozza del Pniec inviata lo scorso anno, sottolinea Manca su Il Corriere della Sera, che sottolinea che bisogna ancora sciogliere alcuni nodi importanti: (…) il primo è quello del deposito nazionale delle scorie nucleari. Le pale eoliche dividono la Sardegna. Intanto, crescono le proteste della popolazione locale contro gli impianti, accusati di rovinare il paesaggio. Il reportage de La Stampa mostra lo stato dei trasporti marittimi in Sicilia e le opinioni degli abitanti a proposito del Ponte dello Stretto. La rassegna stampa Energia.
ENERGIA, IL POSSIBILE ACCORDO SUL NUCLEARE ITALIA-FRANCIA
“Siamo invasi e posseduti (in chiave solo economica, per carità) dai nostri amici francesi. Consolida questa impressione ciò che è accaduto nella moda e nell’auto, due capisaldi del made in Italy, due simboli dell’Italia del benessere del Dopoguerra. La proprietà in questi settori è ormai quasi tutta transalpina. Il centro di Milano è poi teatro di una disfida, non solo immobiliare, tra Kering, ovvero Pinault, e Lvmh, ovvero Arnault per dominare via Montenapoleone, che ahinoi si chiama proprio così. Non ci poteva essere, sotto il profilo simbolico, niente di meglio (o di peggio) per illustrare il presunto rapporto di dipendenza di un’economia sull’altra. E per segnare anche la scarsa lungimiranza della finanza italiana, non solo dell’imprenditoria, che non ha saputo promuovere aggregazioni industriali di pari entità. Salvo chiamare le banche d’affari francesi per regolare rapporti di potere interni al proprio azionariato come nel caso di Mediobanca”, si legge su L’Economia de Il Corriere della Sera.
“Se guardiamo però all’interscambio commerciale tra i due Paesi, vediamo che nel 2023 è stato intorno ai 100 miliardi e con un saldo in sostanziale equilibrio. Se poi togliamo la componente dell’energia vendiamo più di quello che acquistiamo. Nei servizi la situazione è invece largamente favorevole alla Francia. Parigi è al primo posto negli investimenti diretti (Ide) in Italia, con 80 miliardi nel 2022. Sono 2 mila 282, sempre nel 2022, le partecipazioni di controllo in società italiane che danno lavoro a 306 mila persone (al secondo posto dietro i tedeschi). L’Italia è però — e questo appare di meno — il quinto investitore estero in Francia per un valore stimato in 50,7 miliardi nel 2022 e partecipazioni in circa 2 mila imprese che garantiscono un’occupazione superiore alle 100 mila unità. Sulla base di questi dati la manifesta (e temuta) netta superiorità di un’economia sull’altra, ridotta quasi al rango di colonia, è smentita o quantomeno esagerata. Certo noi scontiamo l’esiguità di grandi gruppi che poi sono quelli che più innovano e, grazie a una superiore produttività totale dei fattori, creano maggiore occupazione qualificata e dunque salari più alti. L’energia ci costa troppo perché non abbiamo il nucleare, indispensabile nella transizione nell’energia e nella decarbonizzazione. Acquistiamo elettricità prodotta in centrali atomiche oltralpe ma facciamo finta di niente. (…) Ciò determina in Italia due differenti e contrapposte reazioni. La prima è di sollievo. La Francia ha un debito superiore (ma non pro capite) al nostro. È cresciuto più del nostro negli ultimi anni. Sfiora i 3 mila miliardi, al 110 per cento del Pil. Tra il 2008 e il 2014 l’accumulo di debito è stato del 30% e di altri 20 punti percentuali tra il 2019 e il 2023. Nello stesso periodo l’Italia è passata dal 105,9% del 2008 al 137,3% dello scorso anno. Lo spread con i titoli tedeschi è raddoppiato ma è sempre la metà del nostro”, continua il giornale.
“La seconda reazione è di tenore esattamente opposto e decisamente più prudente e avveduta. Un attacco dei mercati alla Francia non risparmierebbe l’Italia. Dunque, meglio dare un segnale di rigore sui conti il più presto possibile e non cementare l’impressione di un attendismo opportunista e colpevole. (…) Il Portogallo ha uno spread che è metà del nostro. L’ultimo rapporto di Prometeia analizza la situazione della finanza pubblica francese in relazione con l’andamento degli altri Paesi dell’Unione. Il disavanzo del 2023 è cresciuto al 5,5 per cento (dal 4,9 previsto), ma è sempre migliore del nostro (7,4 per cento) pur gonfiato dagli effetti dei bonus. Dal 2007 il deficit francese è sceso sotto il 3% solo nel 2018 e 2019 per effetto della precedente procedura d’infrazione con le regole del vecchio patto di stabilità. L’incidenza della spesa pubblica primaria francese, al netto degli interessi sul debito, è stata di 7,7 punti percentuali superiore alla media europea. Significativa la differenza sul saldo primario. Negli ultimi dieci anni lo scostamento è stato di due punti percentuali di Pil rispetto alla media europea, di 3 al confronto con la Germania e di 1,7 nel paragone con l’Italia.”, continua il giornale.
“Parigi ha sempre goduto di una sorta di protezione politica discendente dall’asse con la Germania, che ha tenuto a lungo a freno lo spread. Non è detto che duri per sempre. L’Italia però questa protezione, giusta o sbagliata che sia, non l’ha mai avuta. La Bce in caso di turbolenze può intervenire per ridurre gli spread con il cosiddetto Tpi (Trasmission protection instrument), ombrello peraltro mai usato, ma solo se si rispettano le regole delle procedure. Una ragione in più per essere disciplinati e per mostrarne per tempo l’attitudine. In un libro con una loro celebre conversazione, gli ambasciatori Sergio Romano e Gilles Martinet (Un’amicizia difficile, Ponte alle Grazie) spronavano i due Paesi a non specchiare le proprie virtù nei difetti dell’altro, ma invece a coltivare le tante affinità nei valori e negli interessi. Nell’Unione europea le disavventure degli altri sono sempre un po’ le proprie. Mai dimenticarlo, conservando un po’ di umiltà. E di memoria”, si legge sul quotidiano.
“Il primo di questo mese l’Italia ha mandato all’Europa il suo Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec). La vera novità rispetto alla prima bozza inviata lo scorso anno è l’inserimento del nucleare come una delle fonti con le quali produrre energia. Un indizio di quel «pragmatismo» al quale il titolare del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase), Gilberto Pichetto Fratin, si è sempre richiamato. Un’indicazione di metodo più che di contenuto. Tanto che le percentuali di «copertura» dell’energia da atomo al 2050 vengono indicate all’11%. (…) l’importante è che ci sia una chiara direzione verso le rinnovabili. E che su questo il governo sia impegnato. Cosa che a cascata richiede però da un lato analogo impegno delle varie amministrazioni che saranno via via coinvolte. Ma anche il fatto che si proceda altrettanto rapidamente a sciogliere alcuni nodi importanti. Il primo è quello del deposito nazionale delle scorie nucleari. Il bando c’è. Ma l’individuazione del sito sembra ancora lontana. Senza contare che si dovrà indicare quanto prima l’agenzia o crearne una nuova che proceda alla certificazione di tecnologie e produzioni. L’esperienza della startup Newcleo (italiana ma attiva in Francia), che sta man mano ricevendo le varie certificazioni, ci dice quanto il percorso possa essere giustamente lungo (si ha a che fare con la sicurezza). Il «pragmatismo» in materie come queste deve viaggiare di concerto con la sicurezza”, scrive Manca su Il Corriere della Sera.
ENERGIA, SARDEGNA PROTESTA: PALE EOLICHE ROVINANO PAESAGGIO
“Il paese del vento raccontato quasi cent’anni fa da Grazia Deledda ora scende in piazza e sale sulle barricate contro l’assalto dell’eolico. Assalto reale o percepito? Poco importa: da mesi il dibattito in Sardegna è acceso, e questo è stato uno dei temi che hanno caratterizzato le prime mosse del nuovo governo regionale, il campo largo guidato da Alessandra Todde. Che, pochi giorni fa, ha approvato una legge che blocca per un anno e mezzo la realizzazione di nuovi impianti da fonti rinnovabili, sia eolici che fotovoltaici a terra. La legge, approvata con la consapevolezza dei limiti costituzionali, sarà quasi certamente impugnata dal governo: lo ha anticipato il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin. Un annuncio che non ha sorpreso la politica sarda: la norma serve a prendere tempo, a fronte di numeri sugli impianti autorizzati, e soprattutto su quelli in progetto, che parte dei sardi giudica allarmanti, per gli effetti sul paesaggio e sull’appeal turistico della Regione.(…) la Basilica romanica tra i monumenti più visitati della Sardegna. Che presto potrebbe essere circondata da pale, se dovesse passare il progetto di potenziamento del parco eolico di Nulvi-Ploaghe del gruppo Erg. La stessa sorte potrebbe toccare all’area della Reggia nuragica di Barumini, nel Sud Sardegna, e persino al territorio in corsa per ospitare l’Einstein Telescope, nel Nuorese”, si legge su La Repubblica.
“(…) Secondo i dati Terna, rilanciati dalla Regione in fase di presentazione della legge, ci sono 809 richieste di nuovi impianti, per 57,6 gigawatt di potenza annua: 524 per il fotovoltaico (22,9 gigawatt), 254 per l’eolico a terra (16,8 Gw) e 31 per l’eolico in mare (17,8 Gw). L’obiettivo di produzione da nuovi impianti rinnovabili che il ministero ha assegnato alla Sardegna è di 6,2 gigawatt annui mentre, se tutte le richieste fossero accolte, l’isola si troverebbe a produrre 11 volte l’energia che oggi consuma. Così la protesta non si ferma: sindaci e singoli cittadini si sono riuniti nei giorni scorsi a Orgosolo e annunciano una nuova imponente manifestazione per la fine di luglio. (…) «La legge approvata è un palliativo — spiega Michele Zuddas, avvocato e attivista — perché sospende i nuovi impianti, ma non le istruttorie sulle domande presentate. Si rischia il cortocircuito. Bisogna intervenire in modo organico, aprendo un tavolo con lo Stato e facendo valere le prerogative dell’autonomia regionale. Il nodo è il rapporto tra l’isola e l’Italia, che dovrebbe essere di leale e reciproca collaborazione»”, continua il giornale.
“Sul tema del presunto assalto al territorio, anche il mondo degli ambientalisti si divide. Cauta Legambiente: «La Sardegna — spiega la presidente Marta Battaglia — è la Regione con il più alto livello di emissioni di CO2 pro capite, perché continua a produrre energia dai combustibili fossili, in primis il carbone. Non siamo un mondo a parte: dobbiamo impegnarci a rispettare l’obiettivo minimo di 6,2 gigawatt da produrre entro il 2030». Ma è vero che siamo già abbondantemente oltre? «Assolutamente no — continua Battaglia — si fa una grande confusione tra autorizzazioni e domande presentate. Gli impianti autorizzati sono pochi e le istruttorie lunghe. (…) Quanto ai siti di pregio, la Sovrintendenza è molto attenta e alcune autorizzazioni sono già state negate». Su tutt’altra posizione Stefano Deliperi, del Grig (Gruppo di intervento giuridico), che ha lanciato una petizione per chiedere «una moratoria nazionale, che sospenda qualsiasi autorizzazione per nuovi impianti rinnovabili in attesa di una pianificazione condivisa. Dev’essere lo Stato a pianificare, in base ai fabbisogni reali, a installare gli impianti e a mettere a bando i siti individuati». (…) «Al 30 giugno ci sono ben 824 istanze di connessione alla rete presentate a Terna (…) In questo quadro, a perderci, sicuramente sono i sardi: attualmente in Sardegna abbiamo una produzione che già si avvicina ai 2 gigawatt annui, con un surplus del 40% rispetto al nostro fabbisogno interno. Significa che l’energia prodotta perlopiù va persa, ma viene comunque scaricata sulle bollette dei cittadini»”, continua il giornale.
PONTE SULLO STRETTO, LO STATO DEI TRASPORTI IN SICILIA
“Il mare funziona benissimo, è tutto il resto che non va. Sotto il piccolo sottopassaggio ferroviario di Villa San Giovanni le auto si inchiodano ogni volta. «Effetto imbuto» dice Giuseppe Tripodi, insegnante di sostegno di Matematica e Scienze. Lui va e viene dallo Stretto, vive e lavora fra Calabria e Sicilia. È un pendolare del traghetto che unisce l’Italia. «Quando hanno ricostruito Reggio e Villa San Giovanni, dopo il terremoto, nessuno immaginava questi numeri e queste automobili enormi, nessuno pensava a milioni di turisti. Ma non c’è alternativa. Per imbarcarsi è l’unica strada, quest’unico sottopassaggio, non c’è altro modo di arrivare al porto». Nel 2023 sono saliti a bordo dei traghetti dello Stretto 6,5 milioni di persone, più di 2,3 milioni di auto. Il ponte c’è già, ed è questo continuo andare e tornare. Ma tutti sanno benissimo che su questa cartolina italiana, un concentrato di bellezza e sfacelo, incombe il progetto del ponte vero. Il ponte da 13 miliardi. Quello che cambierebbe per sempre la geografia. «Per me è totalmente inutile e pericoloso, il pilone principale poggerebbe su una zona ad altissimo rischio sismico», dice il professor Tripodi. «Servono investimenti per strade, treni, ospedali. Bisogna pensare alla siccità e alla rete idrica. Dai rubinetti di molte case siciliane esce appena un filo d’acqua».”, si legge sull’edizione odierna de La Stampa.
“Certe volte la coda si forma prima del controllo dei biglietti. È lì che un un signore elegante, stanco e anziano, nato a Casablanca, vende i suoi cappelli con la scritta «Italy» ai turisti. (..) Anche Andrea Oteri, consulente aziendale, non sente la mancanza di quell’altro ponte. «Non per motivazioni ideologiche, che mi hanno proprio stancato. Ma per ragioni pratiche. Perché spendere tutti quei miliardi quando manca l’acqua nelle case? Mia madre ha la cisterna sul tetto». E ancora: «Perché spendere tutti quei soldi per il ponte quando per andare da Messina a Trapani in treno servono dieci ore? Mi sembra un errore madornale. Una questione di priorità»”, continua il giornale.
“Anche a Messina le auto si impiantano dentro un angiporto troppo angusto e non attrezzato per i passaggi della stagione estiva. (…) Per tutto il resto c’è la CaronteTourist, che da sola si occupa di unire le sponde. Uno si aspetterebbe di trovare un armatore preoccupato del progetto del ponte da 13 miliardi, invece è il contrario. «Io dico sì al ponte» dice l’amministratore delegato Vincenzo Franza. «Il Ponte è un’opera strategica, una trasformazione epocale per la Sicilia, che potrebbe attrarre fino a otto miliardi di euro di investimenti e dare il via ad un boom economico. Rappresenterebbe il segno tangibile dell’attenzione dello Stato verso il Mezzogiorno e le regioni dello Stretto in particolare e, dunque, da imprenditori non potremmo che essere entusiasti». La visione di Franza è persino più grandiosa di quella del ministro delle infrastrutture, Matteo Salvini, che sta cercando di portare avanti il progetto. «Bisogna trasformare il ponte in un’attrazione turistica. Bisogna rendere fruibili, con ascensori panoramici, le due gigantesche torri. Devono diventare poli attrattivi come lo sono – ad esempio – la Tour Eiffel o il ponte di Normandia sull’estuario della Senna. Tutte opere di ingegneria che con i loro centri di accoglienza per i visitatori producono turismo e indotto anche nelle località adiacenti. Il ponte non ci toglierebbe la leadership del traghettamento, di questo siamo sicuri, le due vie non si escludono»”, continua il giornale.
“Oggi a bordo del traghetto c’è un operaio di una ditta di ascensori che si chiama Vincenzo Ielo: «Per me questo piccolo viaggio in mare è mistico, il ponte rovinerebbe ogni romanticismo. (…) I ponti sono belli, quando sono ponti sicuri. Ma il bello di non avere il ponte è la distanza dall’altra terra, in cambio della vicinanza alla natura. È la salsedine in faccia. L’odore di pesce. Una specie di ansia da avvistamento, che ti prende ogni volta. È questo tempo di decompressione, dove tutti guardano in qualche punto preciso. Il bello di non avere il ponte è la salvaguardia di questo tratto di mare. È il classico contro il moderno. È il vuoto contro il pieno. E tutti sanno quanto questo sia un tempo in cui il vuoto e la natura siano beni molto più preziosi del loro contrario. A ben guardare, quello che manca al mondo è già qui.”, continua il giornale.