Ample aveva raccolto 330 milioni di dollari per cambiare per sempre la mobilità elettrica. Oggi licenzia quasi tutti e chiede fondi per il fallimento. Tra promesse iperboliche, gestione discutibile e limiti economici, il modello mostra tutte le sue crepe
Un’altra startup che prometteva di rivoluzionare la mobilità elettrica alza bandiera bianca.
Ample ha dichiarato bancarotta. L’azienda californiana che aveva raccolto centinaia di milioni di dollari promettendo stazioni automatiche per la sostituzione rapida delle batterie dei veicoli elettrici non è la prima ad aver fallito nel tentativo di trovare una soluzione ai limiti della ricarica tradizionale.
AMPLE ALZA BANDIERA BIANCA, ADDIO BATTERY SWAPPING?
Ample sosteneva di poter sostituire una batteria in cinque minuti, a un costo di circa 13 dollari, con stazioni modulari, economiche e adattabili a qualsiasi modello di auto elettrica. L’obiettivo era portare un miliardo di veicoli elettrici sulle strade grazie al battery swapping. Ma è andata incontro a un fallimento: quasi tutti i dipendenti licenziati e una tecnologia che ora rischia di restare in un cassetto. L’inizio era stato promettente, con 330 milioni di dollari raccolti da partner di peso come Shell, Mitsubishi e Stellantis. Tuttavia, secondo i documenti depositati presso il tribunale fallimentare del Texas, l’azienda dispone oggi di 10–50 milioni di dollari in asset a fronte di 50–100 milioni di passività. La società chiede ora 6 milioni di dollari per finanziare la procedura fallimentare. Secondo quanto riporta Electrek, una fonte interna rivela che la tecnologia sarebbe reale, ma il fallimento sarebbe il risultato di gestione inesperta, promesse iperboliche e uso inefficiente dei capitali.
IL BATTERY SWAPPING E’ UN FALLIMENTO?
Ample non è un caso isolato ma si inserisce in una crisi più ampia, innescata da mancanza di visione, complessità industriale, costi energetici, concorrenza asiatica e domanda europea di veicoli elettrici cresciuta meno del previsto. Prima di lei hanno fallito: Better Place, Tesla e North Volt. La prima azienda è stata pioniera del battery swapping in Israele e Danimarca, ma è fallita nel 2013 dopo aver bruciato oltre 800 milioni di dollari. Tesla, invece, ha abbandonato il progetto avviato nel 2013 per scarso interesse degli utenti e per il venir meno degli incentivi. La crisi non risparmia Northvolt, la startup svedese delle batterie che prometteva di essere il campione europeo in grado di competere con Cina e Stati Uniti.
Nonostante gli oltre 15 miliardi di dollari raccolti tra investimenti pubblici e privati, Northvolt ha dovuto ridurre drasticamente le attività, vendere asset, congelare o rinviare diversi progetti di gigafactory, ammettendo difficoltà operative e industriali nel portare la produzione su larga scala. L’unico esempio realmente funzionante resta NIO in Cina, ma con un modello molto diverso: integrazione verticale, controllo totale sul veicolo e sulla batteria e un forte sostegno pubblico. Anche in questo caso, però, gli obiettivi di scala annunciati per il 2025 sono stati ampiamente mancati.
L’ITALIA NON FA ECCEZIONE
Anche in Italia il copione è simile. Negli ultimi anni si sono susseguiti annunci su: gigafactory di batterie, poli industriali per l’accumulo, riconversioni “green” di siti produttivi storici. Tuttavia, la maggior parte di questi progetti sono ridimensionati, rallentati o rimasti sulla carta, schiacciati tra burocrazia, incertezza sugli incentivi, costi energetici elevati e una filiera europea ancora fragile.
Dal punto di vista tecnico ed economico, il battery swapping continua a sollevare dubbi, mentre le ricariche ultra-rapide stanno già scendendo sotto i 20 minuti per un “pieno”. Le stazioni di swapping richiedono grandi scorte di batterie, spazio, logistica e capitale immobilizzato. Di conseguenza, i costi per l’utente finale non risultano significativamente inferiori alla ricarica rapida pubblica. Inoltre, nei mercati occidentali è forte il problema psicologico e patrimoniale della “batteria di qualcun altro”.


