Se non aumenta la produttività, a breve l’industria automotive italiana dovrà tagliare 50.000 posti di lavoro. Trump uscirà di nuovo dagli Accordi sul clima di Parigi. I leader disertano la Cop29. La rassegna Energia
Lo stop ai motori endotermici e la spietata concorrenza cinese faranno salire a breve fino a 50.000 il numero dei posti di lavoro a rischio nel settore automotive, se non aumentano i livelli produttivi nel nostro Paese. Tuttavia, in Italia è in calo da trent’anni. Servono investimenti, aumento dei salari, riduzione del costo di energia e produzione. È la fotografia che emerge dall’ultima analisi di Alix Partners per il discusso tavolo presso il ministero delle imprese. Il giorno dell’insediamento ufficiale alla Casa Bianca Trump uscirà di nuovo dagli accordi di Parigi sul clima. L’ordine esecutivo è già pronto, secondo il Wall Street Journal. Una decisione che mette a rischio anche le altre politiche ambientali introdotte dall’amministrazione Biden, come l’Inflation Reduction Act. Un ruolo cruciale nelle prossime mosse del tycoon lo avrà Elon Musk, influente consigliere del leader repubblicano. L’uscita degli Usa dagli accordi di Parigi è una nuova tegola per la Cop29, che non inizia con i migliori auspici. Infatti, sicuramente diserteranno il summit globale la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, il leader francese Emmanuel Macron, il numero 1 del Brasile Luiz Inacio Lula, l’indiano Narendra Modi, il tedesco Olaf Scholz e il cinese Xi Jinping. Insomma, i maggiori inquinatori del globo non parteciperanno alla conferenza annuale chiamata a salvare la terra. Parteciperà invece Giorgia Meloni, la quale terrà però solo un breve discorso in plenaria il 13 novembre. La rassegna energia.
AUTO, IL FUTURO CHE ATTENDE L’INDUSTRIA UE
“Sono già 25 mila i posti di lavoro a rischio in Italia nel settore dell’auto e a breve, se non aumentano il livelli produttivi, diventeranno almeno 50 mila. Questa la cruda analisi di Alix Partners per il tavolo dell’automotive presso il ministero delle Imprese. È l’effetto combinato di due fattori: lo stop al motore a scoppio dal 2035 e la spietata concorrenza cinese. Circostanze che però si innestano in un Paese dove la produzione è in calo dagli anni 90, e che quest’anno registrerà il peggiore risultato dal 1956. Il ruolo chiave lo gioca Stellantis perché in Italia è l’unico grande produttore. E perché è difficile attirare nuove case in una fase in cui la domanda in Europa sta drammaticamente scendendo. Il ministro Adolfo Urso ha accettato le richieste del gruppo garantendo 950 milioni di incentivi nel 2023 e chiedendo in cambio di alzare la produzione a un milione di veicoli, quota minima per difendere l’occupazione nella filiera. Il risultato è che si chiuderà l’anno, se va bene, a 500 mila veicoli, e a nulla serve chiedere di restituire almeno in parte quello che negli anni il Paese ha dato all’azienda torinese, perché Stellantis risponde così: «Fiat era un’altra realtà e oggi la famiglia Agnelli-Elkann è solo uno degli azionisti, la società non è più italiana, andiamo a produrre dove costa meno, punto»”, si legge su Il Corriere della Sera.
“(…) Secondo i dati del rapporto Draghi, nei prossimi cinque anni la capacità produttiva dell’automotive europeo rischia di ridursi ogni anno del 10%. Ma se in Italia la produzione è in calo da trent’anni un motivo ci sarà. E da lì bisogna ripartire. (…) Cominciamo a vedere il costo del lavoro nei Paesi europei dove Stellantis ha gli stabilimenti. In Italia, per l’azienda il costo orario di un operaio metalmeccanico è di 29 euro, in Francia sale a 35 e in Germania a 44. Certo in Polonia si scende a 12 euro e in Serbia a 7. Invece in Spagna, dove Stellantis ha già prodotto nel 2023 il milione di veicoli a cui noi aspiravamo, il costo orario è di 25 euro. Confrontando gli stabilimenti di Saragozza e Madrid con quelli di Melfi e Mirafiori, secondo Stellantis il costo del lavoro in Italia è del 22% più alto e la produttività è del 38% più bassa. (…) a produttività è bassa anche perché i due stabilimenti italiani non viaggiano a pieno regime, e questo non dipende certo dai lavoratori. Inoltre la produttività e il suo mantenimento dipende anche dagli investimenti (fatti o mancati). Sul fronte della componentistica invece le aziende italiane segnalano una produttività più elevata rispetto a Francia e Spagna. Certamente non si può pensare di recuperare competitività sulle retribuzioni in un Paese che ha visto uno dei maggiori cali dei salari reali tra i Paesi Ocse dal 1990 a oggi” continua il giornale.
“I costi di un assemblatore di automobili sono dovuti circa per il 10% al personale, un altro 12% dipende dall’energia. La comparazione fra i Paesi europei dove Stellantis ha i suoi stabilimenti mostra che l’Italia ha in assoluto il prezzo più alto: 103 euro al MWh, contro i 49,3 della Francia, i 71,4 della Germania, i 92,1 della Polonia, i 91,5 della Serbia e i 53,7 della Spagna. Si discute di un ritorno al nucleare attraverso i nuovi reattori modulari, ma ci vorranno almeno 12 anni, mentre la sopravvivenza del settore è in gioco adesso. Una strada la mostra il professor Massimo Beccarello, direttore del Centro di ricerca in economia e regolazione, dei servizi, dell’industria e del settore pubblico dell’università Bicocca (Cesisp): «Nell’immediato una leva per rendere competitivi i settori strategici per il Paese possono essere le energie rinnovabili, vuol dire che innanzitutto il governo deve accelerare la produzione di eolico e fotovoltaico per raggiungere gli obiettivi che si è dato entro il 2030, contemporaneamente va affrontato il problema del prezzo. I costi di produzione delle rinnovabili sono più bassi, incluso quel 23% di energia prodotta da idroelettrico, ma poi tutta questa energia viene venduta allo stesso prezzo di quella prodotta con il gas. Bisognerebbe disaccoppiare i prezzi e destinare una parte di questa energia da rinnovabili ai settori a rischio delocalizzazione». (….) il costo della logistica in Italia è allineato a quello spagnolo, mentre Stellantis segnala che nei suoi siti produttivi in Italia, come Atessa, Cassino, Melfi e Pomigliano, i costi sono ancora più elevati rispetto agli altri Paesi europei, a causa di una rete di trasporto e intermodalità insufficiente, che comporta un aumento dei costi di spedizione. (…) le nostre imprese della componentistica sono troppo piccole per la competizione globale: hanno un fatturato medio inferiore del 20% rispetto a quelle francesi e del 50% rispetto alle tedesche”, si legge sul quotidiano.
“Tornando al nostro unico maggior produttore: è vero che Fiat ha ricevuto dal Paese più di quanto ha dato, ma è altrettanto vero che i governi che si sono succeduti negli ultimi 50 anni non hanno fatto quello che era necessario per avere un rapporto alla pari. Al gruppo partecipato dalla famiglia Agnelli è stato concesso di non avere concorrenti nel Paese (basti pensare alla mancata vendita di Alfa Romeo a Ford), mentre in Spagna i produttori sono diventati cinque. Quando era il momento propizio, poi, lo Stato italiano non ha nemmeno cercato di diventare azionista. (…) Al momento l’idea di politica industriale nel nostro Paese sta nell’ultima legge di Bilancio: i 4,6 miliardi del fondo automotive stanziati dal governo Draghi da spendere entro il 2030, sono stati cancellati con un tratto di penna”, conclude il giornale.
ENERGIA, TRUMP USCIRA’ DA ACCORDI DI PARIGI
“Donald Trump uscirà nuovamente dagli accordi di Parigi sul clima il giorno dell’insediamento alla Casa Bianca. Parliamo dei trattati per mantenere il surriscaldamento globale entro gli 1,5 gradi centigradi, firmati da Obama e da Trump già abbandonati nel 2019, salvo essere ripristinati da Biden. L’ordine esecutivo è già pronto, scrive il Wall Street Journal. Da sempre scettico nei confronti dei cambiamenti climatici, il tycoon mette d’altronde a rischio anche le altre politiche ambientali. «Drill baby, drill», trivella, è stato il grido di battaglia dell’intera campagna appena conclusa, basata sul sostegno al fracking — sistema per estrarre greggio iniettando acqua, sabbia e sostanze chimiche nel terreno — che permette di avere più petrolio e gas in circolazione, abbassando potenzialmente i prezzi.(…) Trump ha poi detto di voler «uccidere » anche l’Inflation Reduction Act, la più grande iniziativa verde varata dai dem. Potrebbe però limitarsi a smantellarla solo in parte: gli investimenti di Biden sulle rinnovabili hanno infatti spinto in maniera importante il mercato del lavoro, anche negli Stati repubblicani. (…) Elon Musk compreso, il patron delle auto elettriche Tesla, oggi influente consigliere del leader repubblicano. Uomo più ricco del mondo, si è sempre detto “pro-ambiente”: e chissà se ora userà l’ascendente solo per proteggere i suoi affari o avrà una visione più ampia”, si legge su La Repubblica.
“Secondo uno studio pubblicato dall’affidabile Carbon Brief la marcia indietro di Trump porterà a un aumento di 4 miliardi di tonnellate delle emissioni di CO2 entro il 2030: quanto quelle annuali di Giappone e Unione Europea messe insieme. Sono dati che rendono particolarmente difficile il compito della delegazione americana guidata da John Podesta, consigliere di Joe Biden sull’energia, alla COP29, la conferenza Onu sul clima che prende il via oggi in Azerbaijan. Bisognerà rassicurare gli alleati che le azioni di Trump si limiteranno a rallentare gli sforzi di decarbonizzazione ma non riusciranno a bloccare la transizione verso le rinnovabili e il taglio di emissioni. (…) L’altro obiettivo è salvare le regole che si sono dati diversi Stati americani. A partire dalla California (che se fosse un Paese sarebbe la quinta potenza industriale, sede di 55 delle 500 maggiori società Usa)”, continua il giornale.
ENERGIA, COP 29 SNOBBATA DAI GRANDI DEL MONDO
Una nuova tegola per la Cop29, che non inizia con i migliori auspici. Infatti, sicuramente diserteranno il summit globale la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, il leader francese Emmanuel Macron, il numero 1 del Brasile Luiz Inacio Lula, l’indiano Narendra Modi, il tedesco Olaf Scholz e il cinese Xi Jinping. Insomma, i maggiori inquinatori del globo non parteciperanno alla conferenza annuale chiamata a salvare la terra. Parteciperà invece Giorgia Meloni, la quale terrà però solo un breve discorso in plenaria il 13 novembre. La rassegna energia.
“Il Pianeta malato, con una febbre che ha ormai raggiunto i famosi +1,5 gradi di temperatura media una volta considerati invalicabili, grida di dolore: ma i grandi del mondo snobberanno la Cop 29 che parte oggi a Baku, in Azerbaijan. Non ci sarà Joe Biden. Mancheranno la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, il leader francese Emmanuel Macron, quello del Brasile (dove si terrà la prossima Cop) Luiz Inacio Lula, l’indiano Narendra Modi, il tedesco Olaf Scholz e il cinese Xi Jinping. Insomma, i maggiori inquinatori del globo non parteciperanno alla conferenza annuale chiamata a salvare la terra. Ci sarà invece Giorgia Meloni: da capo del G7 la premier italiana non può esimersi, ma terrà giusto un breve discorso in plenaria il 13 novembre e poi tornerà a Roma. La Cop29 vedrà impegnati 50 mila delegati in un negoziato fatto distrategie e relazioni, incentrato quest’anno sulla necessità di raccogliere più fondi per la finanza climatica. Si parla di trovare 1000 miliardi anziché i 100 decisi finora – ma la riuscita appare già compromessa in partenza sia per il disimpegno dei leader, sia per le ombre della nazione ospitante. (…) Tuttavia l’urgenza di agire, di trovare fondi per adattamento e mitigazione all’impatto delle emissioni, non è mai stata tanto chiara come ora: la devastazione e il fango di Valencia, le inondazioni che hanno colpito l’Europa e l’Italia (…) sono tutti sintomi della stessa malattia. E gli scienziati con due nuovi report avvertono che la febbre non sta passando. Anzi, peggiora”, si legge su La Repubblica.
“Il servizio Climate Change di Copernicus spiega che il 2024 sarà l’anno più caldo di sempre, quello in cui dovremmo prendere atto che gli Accordi di Parigi – in cui i Paesi si impegnavano a restare sotto i +1,5 gradi di riscaldamento rispetto all’era pre industriale – sono falliti: stiamo andando oltre. Di questo passo, senza un reale freno alle emissioni nel 2100 arriveremo intorno a + 3 gradi. (…) a capo della conferenza quest’anno c’è di nuovo un (ex) petroliere, Mukhtar Babayev, ministro dell’Ambiente dell’Azerbaijan per 25 anni dirigente della più grande compagnia statale di oil&gas del Paese, la Socar. Questa figura doppia (…) lasciano intuire che il discorso sull’addio alle fonti fossili non sarà sul tavolo. Proprio la Socar, che con l’Italia fa affari sul gas, di recente ha fatto sapere che aumenterà le sue produzioni fossili”, continua il giornale.