Che Donald Trump abbia quasi un’ossessione per i metalli rari, lo abbiamo capito dalle sue dichiarazioni sulla Groenlandia e sull’Ucraina, che infine ha firmato l’accordo sulle materie prime con gli Stati Uniti. Meno clamore, invece, ha fatto l’ordine esecutivo siglato da Trump a fine aprile per stimolare il settore del “deep-sea mining”, cioè dell’estrazione mineraria dai fondali marini.
Il “deep-sea mining” è un’industria nuova e molto discussa, sia per l’impatto ambientale ancora incerto ma anche perché promette di sbloccare l’accesso a grandi quantità di metalli critici come il nichel, il manganese e il cobalto.
L’ordine di Trump è giudicato controverso perché si applica non solo alle acque territoriali americane, ma anche a quelle che si trovano al di fuori della giurisdizione nazionale. Washington potrebbe perciò andare allo scontro con l’International Seabed Authority, l’ente delle Nazioni Unite che ha il compito di legiferare sull’estrazione mineraria sottomarina.
L’intera vicenda può essere analizzata anche con delle leggi geopolitiche: gli Stati Uniti non hanno mai ratificato la Convenzione sul diritto del mare delle Nazioni Unite, e quindi vogliono operare al di fuori; la Cina, ovvero la principale rivale americana, esercita un’influenza molto forte sull’International Seabed Authority ed è il paese che ha ottenuto più licenze di esplorazione dei fondali.
Attraverso l’ordine esecutivo, gli Stati Uniti vogliono evitare che la Cina raggiunga la leadership tecnologica nel deep-sea mining e che stringa ulteriormente la sua presa sulle filiere dei minerali critici. Al momento, comunque, l’azienda più avanzata nel settore dell’estrazione dai fondali è nordamericana: si chiama The Metals Company, ha sede in Canada e sta corteggiando l’amministrazione Trump per sfruttare la situazione a suo favore e ottenere i permessi per operare nella zona di Clarion-Clipperton, tra le Hawaii e il Messico.