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Libano

Ecco perché riprendono quota le perforazioni offshore

In calo lo shale per via dei costi e dell’alto tasso di obsolescenza. Ripartono i giacimenti in mare aperto ma in Italia è confermato lo stop per 18 mesi alle esplorazioni

Per la prima volta da cinque anni a questa parte, si allontanano i riflettori dagli idrocarburi shale per concentrarsi nuovamente sulle perforazione offshore, cadute nel dimenticatoio (o quasi) degli investimenti a causa dei tagli alla spesa degli anni passati. La notizia, secondo quanto riporta Bloomberg, è un segnale di ottimismo per l’intero settore.

RIPRESA DELLA PERFORAZIONE OFFSHORE GIÀ IN CORSO

Bloomberg ha citato, in particolare, i dirigenti di settore che questa settimana si sono ritrovato alla Scotia Howard Weil Energy Conference in Louisiana, e durante la quale si è evidenziato come la ripresa della perforazione offshore sia già in corso anche grazie al fatto che le operazioni in mare aperto in alcune parti del mondo sono ora più economiche di quelle realizzate nei bacini del Permiano.

IL GRANDE DIVARIO DEI COSTI DI PRODUZIONE

Un esempio in tal senso, l’ha fornito l’amministratore delegato della Hess Corp, John Hess quando ha confrontato i costi di produzione del Permiano e del progetto Liza nell’offshore della Guyana che la sua compagnia sta portando avanti: per pompare l’equivalente di 120 mila barili di petrolio al giorno, ha detto Hess, è necessario spendere 12,8 miliardi di dollari nel Permiano contro i 3,7 miliardi di dollari in Guyana. Anche se questa differenza così netta non è valida universalmente in tutti i prospetti, non può non fornire agli investitori qualche spunto di riflessione.

IL RITORNO ALLA PRODUZIONE OFFSHORE È UN SEGNALE DI OTTIMISMO DELL’INDUSTRIA PETROLIFERA

Il primo è il fatto che il ritorno alla produzione offshore è un segnale di ottimismo dell’industria petrolifera, per un motivo molto semplice: ciò che ha alimentato la prima rivoluzione shale è stato il fatto che il petrolio ha cominciato a fluire molto più velocemente dai pozzi non convenzionali rispetto a quelli offshore. Ora, invece, il paradigma sembra essersi capovolto: da un lato ci si è resi nuovamente conto che i giacimenti shale hanno una vita decisamente più breve rispetto a quelli tradizionali. E dall’altro lato hanno cominciato ad attirare la loro attenzione non solo i prospetti non sfruttati, ma anche le zone già ampiamente impegnate come il Golfo del Messico e il Mare del Nord.

GLI OPERATORI SHALE STRINGONO LA CINGHIA

Nel frattempo, gli operatori shale stanno stringendo di nuovo la cinghia con poche eccezioni degne di nota soprattutto tra le major del Big Oil. Spinti dagli investitori a portare rendimenti più elevati piuttosto che barili di greggio, gli indipendenti stanno riducendo la spesa per l’esplorazione e di conseguenza, i progetti shale vengono accantonati. Reuters ha riferito all’inizio di questa settimana che Magellan Midstream Partners ha annullato il suo progetto di gasdotto sulla costa del Golfo Permiano che avrebbe dovuto aggiungere un milione di barili giornalieri alle capacità della regione.

TRIVELLAZIONI MONDIALI PREVISTE IN CRESCITA NEL 2019, SARÀ RECORD PER LE PERFORAZIONI OFFSHORE

Insomma, con lo spazio shale affollato e non più economico come una volta, è evidente lo spostamento delle compagnie petrolifere verso l’offshore anche perché rispetto al passato, sono aumentate le gare offerte dai paesi. Secondo gl analisti di World Oil, i leader indiscussi nell’attività di perforazione lo scorso anno sono stati gli Stati Uniti, con un’impennata della produzione di shale, e anche nel 2019 pare che continueranno a guidare la crescita dell’attività di perforazioni globale. Escludendo gli Stati Uniti, le trivellazioni mondiali sono comunque destinate ad aumentare del 2,5 per cento raggiungendo i 46.209 nuovi pozzi che dovrebbero essere perforati nel corso dell’anno, dopo una crescita più modesta dell’1,6 per cento nel 2018. In particolare un paio di mesi fa, la società di ricerca Rystad Energy ha stimato che la produzione globale di idrocarburi in acque profonde è destinata a saltare di 700 mila barili giornalieri rispetto al 2018 per raggiungere il record di 10,3 milioni nel 2019, grazie soprattutto ai nuovi giacimenti che entreranno in funzione in Brasile e nel Golfo del Messico. Oltre al Brasile e agli Stati Uniti, gli altri maggiori produttori di acque profonde saranno l’Angola, la Norvegia e la Nigeria.

IN ITALIA POTENZIALITA’ OFFSHORE NELL’ADRIATICO BLOCCATE PER LEGGE

Naturalmente, in un simile quadro, non si può non pensare all’Italia e alla sua situazione. Innanzitutto bisogna ricordare che nel mare Adriatico c’è molto più metano di quanto si possa pensare. Secondo Eni, che mesi fa ha scelto di investire 2 miliardi nelle acque del Mediterraneo, sotto il fondo dell’Adriatico si estraggono 2,8 miliardi di metri cubi l’anno, ma i dati mostrano che se ne potrebbero estrarre almeno 4 in base ai dati raccolti dal Green Data Center della raffineria pavese di Sannazzaro Ferrera Erbognone (un’enormità se paragaonata ai 5,5 miliardi di metri cubi di gas estratti da tutti i giacimenti italiani nel 2017). Ma per il momento è tutto bloccato dal decreto “blocca trivelle” del Governo Lega-Movimento 5 Stelle: decreto su cui c’è stata un’apertura del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Giancarlo Giorgetti, inaugurando l’edizione 2019 di OMC, la tre giorni dedicata al settore dell’offshore. Apertura subito stroncata però nella giornata conclusiva dal pentastellato Davide Crippa che ha ribadito la permanenza del blocco per le prospezioni di ricerca e non per le concessioni già in essere, dicendosi poco possibilista circa un ridimensionamento del termine di 18 mesi per redarre il Pitesai, il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee.

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