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Ilva appesa a un filo. Ecco perché saranno quattro mesi bollenti

Tra cassa in rosso e produzione ferma, l’acciaieria di Taranto è appesa a un filo. Il nodo rigassificatore frena l’accordo con Baku Steel. E il tempo stringe: senza una svolta, lo spettro della chiusura è sempre più reale

Il piano di decarbonizzazione dell’Ilva è a un passo ma il tempo stringe e i nodi da sciogliere sono ancora tanti. Il destino del polo siderurgico è ancora tutto da scrivere. Intanto le lancette scorrono e l’Ilva rischia la chiusura da qui a quattro mesi. Infatti, la produzione è al minimo dopo l’incidente che ha coinvolto l’Altoforno 1. Le perdite sfiorano i due milioni di euro al giorno e le casse ne hanno appena 200 milioni. Cessione, nazionalizzazione o chiusura? Cosa c’è nel futuro dell’IIlva?

ILVA APPESA A UN FILO

Le incognite che gravano sull’Ilva sono ancora troppe. Le scelte dell’amministrazione comunale di Taranto avranno un peso determinante sulla strategia del Governo. Sono due gli ostacoli principali alla chiusura dell’accordo con Baku Steel. Il primo è il sequestro dell’altoforno 1 dello stabilimento dopo l’incidente che ha provocato la fuoriuscita di materiale. Il secondo è la richiesta degli azeri di costruire una nave rigassificatrice nel porto di Taranto per alimentare l’acciaieria.

“L’amministrazione comunale deve scegliere fra due opzioni. Entrambe fissano la produzione a 6 milioni di tonnellate l’anno a regime. La prima ipotesi prevede la realizzazione a Taranto di tre forni elettrici alimentati da altrettanti Dri, il prodotto semilavorato. Questa soluzione richiede una nave rigassificatrice che fornisca il gas necessario per assemblare il preridotto per i forni elettrici. La seconda soluzione passa, invece, per tre forni elettrici alimentati con la fornitura dal gasdotto Tap, attraverso la rete terreste esistente. Il Comune di Taranto sta valutando quale, fra le due soluzioni, possa garantire la città e il territorio sotto i profili industriale, occupazionale, ambientale e sanitario. C’è la consapevolezza che, senza la nave rigassificatrice, il polo siderurgico perderebbe il peso e la centralità, anche sotto il profilo occupazionale, che ha avuto in passato”, scrive La Repubblica Affari & Finanza, sottolineando che il sindaco di Taranto, esclude che il rigassificatore possa essere costruito nell’area portuale.

Al contrario, l’amministrazione comunale chiede che il rigassificatore galleggiante venga ormeggiato a dodici miglia dalla costa, scelta per secondo il ministero sarebbe antieconomica. “Nei prossimi giorni si cercherà di capire se sia praticabile una soluzione intermedia, suggerita dall’Autorità portuale del Mar Jonio, ossia collocare la nave in prossimità della diga foranea”, aggiunge il giornale.

RISCHIO CHIUSURA?

Se i nodi principali non verranno risolti, la trattativa con Baku Steel rischia di saltare. Il ministero delle Imprese e del Made in Italy giocherà il cruciale ruolo di arbitro. Intanto, nei giorni scorsi è finito nel polverone per un’inchiesta de La Stampa, che ha portato a galla documenti che proverebbero che il Governo avrebbe taciuto su “limiti” e “lacune” che l’ISS ha segnalato nell’ambito della Valutazione di Impatto Sanitario per il rilascio della nuova AIA dello stabilimento siderurgico. Ricostruzioni definite dal Mimit “fuorvianti e strumentali”, sottolineando che in ogni caso si tratta di progetti di piano ormai superati. Nel frattempo, l’ultimo tavolo al Mimit ha portato a un nulla di fatto sull’accordo fra governo ed enti territoriali per la nuova AIA, ma il ministro Adolfo Urso ha parlato di “giornata importante per Taranto, per la siderurgia italiana, per la politica industriale del nostro Paese”.

“L’amministrazione comunale deve scegliere fra due opzioni. Entrambe fissano la produzione a 6 milioni di tonnellate l’anno a regime. La prima ipotesi prevede la realizzazione a Taranto di tre forni elettrici alimentati da altrettanti Dri, il prodotto semilavorato. Questa soluzione richiede una nave rigassificatrice che fornisca il gas necessario per assemblare il preridotto per i forni elettrici. La seconda soluzione passa, invece, per tre forni elettrici alimentati con la fornitura dal gasdotto Tap, attraverso la rete terreste esistente.”, si legge su La Repubblica Affari & Finanza.

IL RITORNO DI FIAMMA PER L’ILVA

Non è da escludere l’opzione di un ritorno di fiamma per il rientro in partita delle altre due multinazionali “che avevano manifestato interesse per l’ex Ilva, l’indiana Jindal International e la statunitense Bedrock industries. Un’altra ipotesi contempla un nuovo bando di gara, con tempi inevitabilmente più lunghi, perché il nuovo percorso di cui stanno discutendo governo, Regione Puglia e enti locali prevede interventi diversi e più vincolanti rispetto alla più generica decarbonizzazione di cui si parlava nel bando del 2024”, scrive La Repubblica Affari & Finanza.

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