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Ilva

Ilva, ecco il piano ambientale (inesistente) di Luigi Di Maio

Conclusa positivamente la vertenza occupazionale su Ilva, dopo due anni e mezzo di trattativa al Mise tra ArcelorMittal e sindacati, è rimasta in ombra, nonostante il nuovo governo animato dai 5 Stelle storicamente ecologisti, la parte ambientale della trattativa.

Dopo un finto tavolo, che era interlocutorio ma non di trattativa, in cui lo scorso 30 luglio Di Maio convocò al Mise 62 sigle tra enti locali e associazioni ambientaliste locali, e durane il quale ArcelorMittal propose il suo addendum ambientale con le novità rispetto al contratto sigillato da Calenda a luglio 2017, nulla si è più saputo di questi aspetti. Di Maio in quella sede disse di non accettare la proposta ArcelorMittal ritendendola ancora insufficiente.

Adesso che i sindacati hanno firmato finalmente l’accordo, ora che sarà corroborato anche dal referendum sindacale, il 15 settembre il fitto dell’azienda passa ufficialmente a ArcelorMittal, con il contratto siglato dalla triplice.
E la parte ambientale? Sul sito del Mise l’ultimo tassello è proprio quello del 30 luglio, rifiutato da Di Maio. Le informazioni si fermano lì. In realtà da fonti sindacali sappiamo che al contratto da loro firmato è stato aggiunto un addendum ambientale, che a quanto pare prende valore di legge insieme al contratto sindacale.
Eppure, non solo non è stato discusso con nessuno, ma non è neanche pubblicato sul sito del Mise. Né su quello del ministero dell’Ambiente. Né, a differenza di quello del 30 luglio, è stato messo a disposizioni di enti locali e associazioni.

In dichiarazioni pubbliche a seguito dell’accordo però, sia Di Maio sia il ministro dell’Ambiente Costa hanno dichiarato che “il passaggio da 6 a 8 ml di tonnellate – cifra necessaria all’azienda per tornare in paro coi guadagni – non comporterà alcun aumento di emissioni”. Ma come è possibile un aumento di produzione senza aumento di emissioni?

Né il Pd, né altri dell’opposizione, occupati a fare le pulci ad inutili e superati pareri dell’avvocatura, si sono soffermati su questi aspetti fondamentali per tutti i cittadini di Taranto.

L’unico a rispondere a questa domanda è stato Giorgio Assennato, ex dg ARPA Puglia, l’uomo che ha inventato i wind days per calmierare la produzione nei giorni di tramontana. Uno scienziato della medicina e dell’ambiente che si è sempre dichiarato a favore dell’apertura della fabbrica, ma con le dovute accortezze scientifiche che le impediscano di inquinare, come la modernità consente. Un uomo cacciato da Michele Emiliano, per chiarirci.

Analizzando l’accordo ambientale Assennato l’ha criticato fortemente dicendo che “un addendum è di solito una proposta migliorativa ed è positiva l’anticipazione di una serie di scadenze del piano ambientale Ilva, ma ci sono però aspetti inquietanti: Al ministero dell’Ambiente, ha detto, comandano i direttori generali e uno di questi, Lopresti, che sopravviverà a tutti i Governi e a tutti i colori politici, ed è la persona che ha sempre negato di fare una valutazione del rischio sanitario dentro l’Autorizzazione integrata ambientale.

Pur se di dimostra che c’è una catastrofe sanitaria, l’Aia non si riapre. Si riapre l’Aia solo se si dimostra se c’è un peggioramento, un superamento, per quanto attiene gli inquinanti che incidono sulla qualità dell’aria urbana. Dal Pm10 al benzoapirene, L’inquinamento è nei limiti? Stop. La valutazione del danno sanitario si blocca. La situazione sanitaria non va bene? Non accade nulla. Su questa base e secondo i criteri del decreto ministeriale, non ci arrivi mai. E allora si vende fumo se si dice che si farà la valutazione di danno sanitario seguendo i criteri del decreto Balduzzi. L’addendum all’accordo al Mise aggrava quindi le cose. Sarebbe stato meglio se non ci fosse stato – ha concluso Assennato -. Prendere in giro una popolazione che oggettivamente che avverte il rischio in modo magari patologico ma che corrisponde ad un vissuto, non è una cosa normale. Ciò che è necessaria è la valutazione preventiva di rischio sanitario”.

Proprio sulla base di questa, arriviamo al problema centrale che il nuovo addendum porta con sé: come dicevamo la produzione da 6 o 8 milioni di tonnellate, comporta aumento delle emissioni o ha ragione Di Maio che restano uguali?

Nella valutazione di Assennato, secondo la valutazione espressa in passato da ARPA, il rischio ambientale diventerebbe accettabile, nonostante le migliorie, quindi a prescrizioni realizzate, solo sotto i 7 (o preferibilmente 6) milioni di tonnellate di acciaio prodotte ogni anno. Ma secondo l’addendum, ArcelorMittal «dovrà confrontare il flusso di massa annuale autorizzato dall’AIA […] con il flusso di massa delle emissioni convogliate di polveri previste esercendo gli impianti ambientalizzati […] fino a 8 milioni di tonnellate». Cosi ci si riferisce solo alle emissioni convogliate e non anche a quelle diffuse, quindi delle emissioni autorizzate e non di quelle reali attuali (molto più basse), cosa che smentisce l’idea che ogni aumento di produzione sia ad emissioni zero. E infine l’addendum contempla l’eventualità di oltrepassare ancora il tetto degli 8 milioni di tonnellate/anno («una catastrofe»), valutando solo in questo caso «l’impiego, per la realizzazione dei volumi produttivi addizionali, di processi di produzione a basso utilizzo di carbone (quali processi di produzione a base di gas naturale)».

Praticamente se si superano gli 8 ml è necessario il passaggio a produzione a gas, ma dai 6 agli 8 resta il piano industriale attuale poiché le emissioni sono le stesse. Ma questa, come abbiamo visto, è una menzogna scientifica.
Come sappiamo dal 2012 superati i 6 ml di tonnellate, anche ad Aia attuata, il rischio sanitario di Ilva torna ad essere non ammissibile. Salvo passaggio ad altra tecnologia. Ovvero a diversa fonte di alimentazione energetica.
Non contemplata dal nuovo (vecchio!) piano Di Maio.

Insomma non chiudono Ilva, e va bene, ma neanche la migliorano.

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