Dopo anni di promesse mancate, l’ex Ilva rischia di finire a pezzi. Gli acquirenti mirano agli impianti del Nord, lasciando a Taranto la “bad company”. In gioco ci sono 8.000 lavoratori e la sopravvivenza dell’industria siderurgica italiana
Com’era prevedibile, nessuno dei potenziali acquirenti è in grado di gestire o rilanciare l’intero polo dell’Ilva. Il rischio, ormai concreto, è che si arrivi al tanto temuto “spezzatino”, che potrebbe portare alla chiusura dell’altoforno di Taranto e alla fine della produzione di acciaio nazionale. Un vero e proprio suicidio industriale.
ILVA DI TARANTO A RISCHIO CHIUSURA?
La storica acciaieria italiana di Taranto rischia di chiudere i battenti. Nel dopoguerra, le acciaierie pubbliche dell’Iri producevano il 59% dell’acciaio italiano. Il polo di Taranto da solo superava i 7 milioni di tonnellate. Oggi sforna a malapena due milioni di tonnellate e la produzione nazionale è quasi completamente basata sul riciclo del rottame. Il problema è con l’acciaio “secondario” non si possono realizzare i prodotti piani di alta qualità per auto, lamiere e componenti della manifattura avanzata. Senza acciaio primario, il nostro sistema industriale sarà costretto a importare semilavorati, diventando dipendente dalla Germania e dagli altri produttori.
La crisi dell’Ilva è lo specchio dell’assenza di un piano industriale, che non sembra ancora scorgersi all’orizzonte. In dieci anni, Taranto ha cambiato più volte proprietario: i Riva, poi ArcelorMittal e, infine, Acciaierie d’Italia. Tutti hanno promesso rilanci, ma hanno lasciato solamente macerie. Il progetto del polo di DRI e forni di nuova generazione, finanziato dal Pnrr, rischia di sfumare definitivamente.
CHI RIMANE IN CORSA PER L’ILVA
Baku Steel e Jindal hanno abbandonato la corsa per l’Ilva. Renexia (Gruppo Toto), Industrie Metalli Cardinale (IMC), Marcegaglia, Cordata Marcegaglia + Sideralba, CAR Srl, Cordata Marcegaglia + Profilmec + Eusider, Eusider e Trans Isole, invece, puntano a singoli asset, offrendo in cambio cifre irrisorie. I pochi “investitori” rimasti in gara non vogliono produrre acciaio, ma monetizzare rottami industriali. Gli acquirenti mirano a prendere la “good company” (gli impianti del Nord) e lasciare a Taranto la “bad”, con i suoi ottomila lavoratori e una città sospesa.
L’ESEMPIO DELLA GERMANIA
Intanto la Germania — Paese che non fa proclami ma impianti — ha stanziato 7,3 miliardi per costruire cinque nuovi stabilimenti DRI (preridotto) e otto forni elettrici di nuova generazione.