La crisi energetica ritarda la decarbonizzazione di Enel, Bp e Shell. Campanelli d’allarme di un rallentamento della transizione energetica. Record negativo per la finanza green. La rassegna energia
La crisi energetica manda in fumo i piani di Enel, Bp e Shell. L’azienda italiana e Shell hanno mancato i loro target di riduzione delle emissioni, Bp invece ha rivisto l’obiettivo di riduzione della produzione di combustibili fossili. I target fissati da imprese e Stati comunque non sarebbero sufficienti per contenere il riscaldamento globale sotto il grado e mezzo, secondo gli scienziati. Ma a preoccupare di più nell’immediato è un altro problema: la transizione energetica sta rallentando? I campanelli d’allarme si moltiplicano, secondo Il Sole 24 Ore. Le aziende stanno rinviando i propri target di riduzione della CO2, la finanza green cala e le voci contrarie alle politiche climatiche sono sempre di più. La finanza green fa registrare un record negativo: tra ottobre e dicembre 2023 la raccolta netta globale dei fondi verdi è scesa sottozero e i gestori che hanno dovuto registrare deflussi per 2,5 miliardi di dollari. Nel primo trimestre del 2024 sono arrivati altri 3 miliardi di deflussi netti, mentre da aprile a giugno la situazione è leggermente migliorata.
ENERGIA, CRISI ROVINA PIANI ENEL, BP E SHELL
“Nel 2022 e nel 2023, i buoni propositi ambientali di Enel si sono scontrati con la dura realtà: la riapertura delle centrali elettriche a carbone, decisa per decreto a causa della crisi energetica innescata dalla guerra della Russia in Ucrania. Così, il gruppo, di cui primo azionista al 23,6% è il ministero dell’Economia, l’anno scorso non ha rispettato l’obiettivo prefissato in termini di intensità delle emissioni di gas serra dirette relative alla produzione di energia elettrica. Enel ha così prodotto 160 grammi di anidride carbonica equivalente per chilowattora, meno dei 229 grammi del 2022 ma più del target di 148 comunicato al mercato nel novembre 2020. Tale circostanza, che ha reso più costose le obbligazioni “green” della società parametrate all’obiettivo, secondo Enel va ricondotta alla «crisi senza precedenti del sistema energetico» e in particolare, si legge nell’ultimo bilancio sociale, al programma definito dall’ex governo Draghi per decreto e «volto a massimizzare la produzione di energia elettrica da centrali a carbone fino a settembre 2023». Il gruppo assicura però che «l’impegno per la decarbonizzazione rimane confermato sia per il breve che per il medio e lungo termine»”, si legge su La Repubblica Affari & Finanza.
“(…) Anche i due gruppi petroliferi Shell e Bp hanno dovuto fare i conti con la crisi energetica. Il primo, a marzo, ha fatto sapere che, complice anche la domanda di gas, punta a un taglio del 15-20% dell’intensità netta di carbonio dei prodotti energetici al 2030 rispetto al 2016. Una previsione meno netta del 20% precedente. In maniera analoga, Bp nel 2023 aveva rivisto l’obiettivo di riduzione della produzione di combustibili fossili per il 2030 al 25% dal 2019, contro il 40% già fissato. Una mossa giustificata dalla società britannica con l’esigenza di avere un’energia poco inquinante «ma anche sicura e conveniente». In Italia, le associazioni Greenpeace, ReCommon e Reclaim Finance hanno di recente messo nel mirino la strategia climatica di Eni, per concludere che non ci sono possibilità di raggiungere l’obiettivo di emissioni nette pari a zero entro il 2050 visto che il gruppo «prevede di aumentare la produzione di petrolio e gas e di mantenerla costante fino al 2030»”, continua il giornale.
“Operando nell’intera filiera del gas naturale e gestendo gli stoccaggi, anche Snam ha ricoperto un ruolo di primo piano nei mesi più difficili della crisi energetica. L’anno scorso la società ha visto aumentare le emissioni inquinanti complessive del 5% dal 2022, anche a causa dell’acquisizione da Eni del 49,9% di Sea Corridor, società dei gasdotti che collegano l’Algeria all’Italia. Il gruppo Snam punta a raggiungere al 2040 la neutralità carbonica su tutto il perimetro in termini di emissioni dirette e indirette energetiche.
Per le banche, prive di attività produttive altamente inquinanti, la questione ambientale si sposta sulle società finanziate. Lo scorso ottobre, la Ceo di Citigroup, Jane Fraser, ha invitato a riconsiderare l’acronimo Esg, che tipicamente sta per “ambiente, sociale e buon governo”, interpretando la “s” come «sicurezza, che sia essa alimentare, dell’energia, della difesa o della stabilità finanziaria ». (…)
In Italia, Intesa Sanpaolo, nell’ultimo report sul clima del 2023, fa sapere di avere ridotto del 22,6% annuo le emissioni finanziate nei settori più inquinanti, dal petrolio&gas alla generazione di elettricità, passando per l’auto e l’estrazione di carbone, comparto dove la banca punta ad annullare l’esposizione entro il 2025. Unica eccezione: l’immobiliare commerciale, che ha leggermente aumentato le emissioni. Il gruppo, a giugno, ha preso impegni più stringenti nell’oil&gas, giudicati «segnali importanti» da ReCommon, che però ha evidenziato come la banca possa fare di più, soprattutto nella riduzione dei prestiti al comparto del carbone. La stessa associazione chiede maggiori sforzi anche a Unicredit per la sua esposizione all’industria dei combustibili fossili. La seconda banca italiana, come Intesa impegnata ad azzerare le emissioni nette finanziate al 2050, ha da poco fissato obiettivi precisi per il settore siderurgico e si prepara a farlo anche per l’immobiliare. Nel bilancio integrato del 2023, Unicredit spiega di avere ridotto le emissioni dell’oil&gas, così come l’intensità delle emissioni per la produzione di energia elettrica. (…) Proprio il comparto automobilistico europeo nel 2025 è chiamato a una riduzione delle emissioni del 15% dal 2021, pena sanzioni. A riguardo, come riferito da Bloomberg, Volkswagen ha domandato all’Ue di rendere gli obiettivi meno stringenti. Secondo uno studio di aprile di T&E, tra i produttori di auto quello tedesco è penultimo, davanti a Ford, nella classifica di chi deve percorrere meno strada per ottemperare alle richieste dell’Ue. In cima al podio c’è invece Volvo, già in linea con gli obiettivi al 2025, seguita da Kia e Stellantis (partecipata da Exor, proprietaria del gruppo Gedi), che presentano “gap” poco rilevanti”, continua il giornale.
ENERGIA, GREEN ECONOMY CALA E TRANSIZIONE RALLENTA
“Di questo passo non ci salviamo, dicono gli scienziati: gli obiettivi di decarbonizzazione fissati da governi ed aziende non sono sufficienti per contenere il riscaldamento globale sotto il grado e mezzo, la soglia di non ritorno. Ma il problema rischia di essere ancora più grave di così. Perché dopo un periodo in cui almeno quegli obiettivi venivano messi verde su bianco, per convinzione, necessità o immagine, in un circolo virtuoso che autorizzava a immaginare un’accelerazione, negli ultimi mesi il circolo pare essersi invertito. La transizione energetica sta rallentando? I campanelli d’allarme si moltiplicano. Alcune grandi aziende stanno in silenzio o esplicitamente rinviando i propri target di riduzione della CO2 . La finanza legata a criteri ambientali si sgonfia. E la crescente insofferenza di categorie danneggiate dalle politiche climatiche spinge la politica a relativizzare gli imperativi climatici, o peggio a contestarli. La formula che salda ripensamenti pubblici e privati dice che la transizione dev’essere sostenibile anche dal punto di vista economico, sociale e geopolitico. Tesi che nella migliore delle ipotesi potrebbe veicolare un’utile correzione di rotta, nella peggiore renderlo irraggiungibile.”, si legge su Il Sole 24 Ore.
“(…) In un rapporto dello scorso novembre l’Agenzia internazionale dell’energia la accusava di proseguire nel “solito business”: continua a investire cifre enormi sugli idrocarburi, solo l’1% per i progetti rinnovabili. Non bastasse, da inizio anno diverse major hanno rivisto al ribasso gli obiettivi: Shell ha eliminato quelli al 2035, pur mantenendo l’obiettivo zero entro il 2050; Bp, che prometteva un taglio della produzione entro il 2030, ha sfumato i termini sottolineando che la priorità sono “i ritorni”; Eni ha presentato un piano in cui prevede di aumentare l’estrazione del 3-4% ogni anno fino al 2027. «Vediamo un passo indietro nei gruppi dell’oil & gas, che fino a poco tempo fa volevano presentarsi con obiettivi di transizione avviati», dice Luca Bergamaschi, fondatore e direttore del think tank dedicato alla transizione energetica Ecco. «Ma tutta un’altra parte di aziende continuano a fare passi avanti». Anche in altri settori però sembra essersi smorzato l’entusiasmo con cui durante la pandemia, in un mondo malato ma sommerso di liquidità, si gettava un annuncio oltre l’ostacolo”, continua il giornale.
“Il rischio è concentrarsi troppo sugli annunci, anche ora che sono negativi. Ma in questa sfida secolare la narrativa conta. L’inflazione, i tassi alle stelle, la nuova ossessione geoeconomica per la dipendenza dalla Cina hanno portato in primo piano rischi e costi a breve termine della transizione. Lo si vede anche nei flussi della finanza ambientale, la E (“environment”) di ESG, la scommessa di allineare la logica dei capitali alla necessità di salvare il pianeta. Moody’s calcola che nella prima metà dell’anno l’emissione di bond sostenibili è scesa del 20%. Crollano soprattutto i cosiddetti bond “sustainability- linked”, quelli che legano direttamente i tassi agli obiettivi di transizione. In questo calo può esserci un aspetto positivo, la maggiore attenzione rispetto a pratiche di “greenwashing”. Ma anche una crescente esitazione delle imprese a legare il costo del capitale a target ambientali misurabili. Facili a dirsi, difficili a farsi.
Molte aziende ora invocano “realismo” e “pragmatismo”. E se questo è vero negli Stati Uniti, nonostante i miliardi stanziati da Biden con il suo Inflation reduction act, lo è a maggior ragione in Europa, dove le organizzazioni industriali contestano all’ambizioso Green deal della Commissione Von der Leyen un «approccio ideologico» fatto di regole soffocanti e incentivi inesistenti. Il rischio, dicono, è che l’industria dell’Unione venga surclassata da concorrenti liberi da vincoli ambientali, un allarme “desertificazone” che si aggiunge alle proteste degli agricoltori e ai dubbi dei cittadini di fronte ai costi di un’auto elettrica o di una pompa di calore. (…) gli obiettivi del Green deal restano, ma verranno perseguiti con «neutralità tecnologica» e supportati da un Industrial deal che incentivi gli investimenti. «Nell’approccio alla transizione ci sono stati errori», riconosce Bergamaschi di Ecco. «C’è una distanza tra obiettivi e risorse, va colmata. Mentre un eccessivo ottimismo tecnologico ha portato a ignorare l’impatto redistributivo. Ma dopo un bagno di realtà ora credo ci sia la possibilità di correggere la rotta, mettendo al centro la protezione dei cittadini, senza dimenticare che investire oggi nelle filiere verdi è il vero modo di difendere la competitività e la sicurezza europee». (…) Molto dipenderà dall’esito delle elezioni negli Stati Uniti, che anche sull’ambiente sono polarizzati. Il piano miliardario di Biden ha dato una scossa poderosa all’industria verde, ma nel frattempo molti Stati governati dai Repubblicani, per cui la difesa delle industrie “tradizionali” si mischia a una buona dose di negazionismo, hanno lanciato una crociata contro gli investimenti Esg. In caso di rielezione Trump, negazionista “in chief”, ha promesso che metterebbe fine alla «nuova truffa verde » di Biden. Non è detto che possa, o voglia cancellare stanziamenti e incentivi verdi, ma certo investimenti e attenzioni tornerebbero verso i fossili. E se la superpotenza invertisse la rotta, tutto il resto del mondo si sentirebbe autorizzato, ancor più, a tirare i remi in barca”, continua il giornale.
ENERGIA, LA FINANZA SOSTENIBILE RALLENTA
“La finanza sostenibile non corre più; ora, cammina. I risparmiatori hanno tirato il freno a mano alla fine dell’anno scorso e adesso l’interesse attorno ai principali strumenti sembra essersi ridotto ai minimi termini. Sono i numeri di Morningstar a parlare: tra ottobre e dicembre 2023 la raccolta netta globale dei fondi verdi è finita sottozero per la prima volta nella sua storia, con i gestori che hanno dovuto registrare deflussi per 2,5 miliardi di dollari. Nel primo trimestre del 2024 la debacle si è ripetuta: altri 3 miliardi di deflussi netti per i vari veicoli di investimento. Da aprile a giugno le cose sono iniziate ad andare un pochino meglio. Gli investitori di tutto il mondo sono tornati a dare risorse ai fondi green, riportando i flussi globali in positivo per 4,3 miliardi di dollari, ma sono lontani i tempi in cui il sistema della finanza sostenibile era in grado di attrarre oltre 50 miliardi di nuovi investimenti al mese. L’andamento della curva che descrive i risultati dei fondi ha iniziato a puntare verso il basso già dalle primissime settimane del 2022, quando la raccolta dei veicoli verdi era crollata del 60% solo nel primo trimestre. (…) Il consuntivo 2023 è stato un ulteriore salasso: nei dodici mesi la raccolta netta è terminata a 62 miliardi. Il risultato 2024 da inizio anno? Appena 1,4 miliardi. I primi ad “abbandonare” la finanza verde sono stati gli Stati Uniti, dove i fondi tematici hanno chiuso il settimo semestre consecutivo in rosso. Non è solo una questione di scarse performance, sul Paese pesa infatti la continua politicizzazione delle pratiche Esg, che continuerà ad affievolire l’appetito degli investitori almeno fino a dopo le presidenziali di novembre. Segno meno anche in Giappone, Canada e Australia-Nuova Zelanda. Solo l’Europa continua a mostrare qualche segnale di maggiore resilienza ed è grazie ai suoi 11,8 miliardi di maggiori investimenti nel secondo trimestre se la giostra sostenibile globale rimane in piedi. Tutto merito delle strategie passive esposte al mercato obbligazionario, che nel Vecchio Continente hanno raccolto 14,2 miliardi di euro di nuovi flussi (erano stati più di 20 nel primo trimestre) e che negli ultimi dodici mesi hanno fatto incassare ai risparmiatori fino all’11% di profitti lordi”, si legge su La Repubblica Affari & Finanza.
“Allo stesso tempo, la controparte azionaria europea ha messo in scena sia luci che ombre. Nel suo complesso il sistema dell’equity sostenibile (con flussi positivi per 3,4 miliardi tra aprile e giugno e risultati da inizio anno dei principali Etf anche del 16%) sembra essere uscito dalle secche del 2022, quando i risultati di molti prodotti finanziari erano stati fortemente negativi, in conseguenza di panieri poco esposti alle aziende energetiche tradizionali (che avevano beneficiato dei prezzi elevati per la guerra in Ucraina) e sovrappesati verso l’industria delle rinnovabili, i cui elevati debiti erano invece gravati da maggiori costi di finanziamento. Bene, quindi, anche se il confronto col mercato convenzionale è impari: tra aprile e giugno quest’ultimo ha incassato afflussi quasi nove volte superiori. Ad aver smesso di invadere il sistema con prodotti più o meno green sono stati tra l’altro gli stessi gestori patrimoniali, che nei primi sei mesi dell’anno hanno immesso sul mercato globale 170 nuovi fondi sostenibili, rispetto ai 325 dello stesso periodo dell’anno precedente. «Il raffreddamento – chiarisce Bioy – riflette una normalizzazione dell’attività di sviluppo di prodotti legati a questi temi dopo tre anni di crescita elevata», durante i quali quasi tutte le società di gestione si sono affrettate a costruire fondi per soddisfare la domanda. Ma non è l’unica ragione. (…) Ai dubbi dei risparmiatori si sono aggiunti ben presto quelli delle autorità di vigilanza e degli organi di governo comunitari, che dal 2021 hanno varato una normativa specifica per la finanza verde (l’Sfdr), arginando così gli eccessi dei gestori, che in questi anni avevano inondato il mercato di strumenti in certi casi risultati sostenibili solo in apparenza, limitandosi a escludere tabacco e armi dai propri portafogli. (…) L’authority europea guidata da Verena Ross ha imposto altre regole alle case di gestione per l’utilizzo dei termini Esg e, stando alle stime di Morningstar, ciò comporterà un cambio di nome o una riallocazione degli investimenti per almeno 1.600 fondi domiciliati in Europa, mettendo a rischio quasi 40 miliardi di euro di investimenti azionari. Dopo mesi difficili, la finanza verde sembra averne di altrettanto complessi davanti a sé”, continua il giornale.