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Petrolio

Prezzo del petrolio verso quota 80 dollari al barile nel 2018

È la previsione della banca d’affari Usa Citigroup. Tensioni geopolitiche, taglio della produzione Opec e sanzioni a Corea del Nord e Iran rischiano infatti di infiammare le quotazioni del greggio a livello mondiale che nel frattempo hanno già toccato i massimi dal dicembre 2014

Nel corso del 2018 il prezzo del petrolio potrebbe toccare quota 80 dollari al barile, complici le tensioni in Medio Oriente e il braccio di ferro tra il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong Un. È quanto ipotizza la banca d’affari statunitense Citigroup in un report intitolato “Wildcards for 2018: Trump looms large along with systemic risks”. Secondo l’istituto americano, dopo il balzo dei prezzi del greggio nel 2017 dovuto al taglio della produzione deciso dall’Opec a cui hanno aderito anche alcuni paesi non appartenenti al cartello come la Russia, “il presidente Usa ha spostato l’attenzione sui rischi geopolitici, con la sua continua volontà di applicare sanzioni a Iran e Corea del Nord, potenzialmente con conseguenze significative” per i prezzi petroliferi. In aggiunta, ricorda ancora Citigroup, “si stanno verificando disordini politici” anche all’interno di alcuni membri dell’Opec stesso come Iraq e Libia “che potrebbero diminuire le forniture di greggio” facendo lievitare i prezzi del petrolio intorno “a livelli compresi tra 70-80, dollari”.

Le tensioni geopolitiche e il ruolo degli Stati Uniti possono influenzare l’andamento dei prezzi delle materie prime

“Molte di queste incertezze hanno conseguenze significative sulle materie prime – hanno ammesso gli analisti di Citigroup -. Non sorprende che la nostra lista di potenziali eventi jolly nel corso dell’anno si concentri sugli Stati Uniti”. Il primo fattore determinante per il rialzo delle quotazioni del greggio nel 2017 è stata, come detto, la decisione dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio e dei suoi alleati, tra cui la Russia, di frenare la produzione e drenare una parte dell’eccesso globale di produzione. Dal punto di vista dei fondamentali di mercato, tuttavia, gli investitori guardano agli Stati Uniti anche per capire come sarà l’andamento della produzione interna, una minaccia che ha scosso l’industria petrolifera negli ultimi anni. Il Brent, punto di riferimento per metà del petrolio mondiale, lo scorso anno è stato scambiato a un prezzo medio di 54,75 dollari al barile mentre i futures durante questo mese hanno già oltrepassato i 69 dollari raggiungendo quasi la soglia dei 70 dollari. Anche il West Texas Intermediate è salito sopra i 64,7 dollari al barile. In entrambi i casi si tratta dei massimi dal dicembre 2014. La fiammata beneficia del sorprendente calo della produzione statunitense e dalla diminuzione delle scorte di greggio Usa. “Il calo costante, se non rapido, degli stoccaggi di petrolio greggio negli Stati Uniti, dovuto alla persistente elevata domanda di raffineria e all’aumento delle esportazioni, si è registrato con fermezza nel mercato”, ha dichiarato John Kilduff, partner della Again Capital LLC di New York a Reuters. I dati della Us Energy Information Administration hanno mostrato, infatti, che le scorte di greggio sono scese di quasi 5 milioni di barili a quota 419,5 milioni di barili nella prima settimana di gennaio. La produzione statunitense è diminuita, inoltre, di 290 mila barili al giorno a 9,5 milioni di barili, ha detto l’Eia, nonostante le aspettative fossero tarate su una produzione al di sopra dei 10 milioni di barili al giorno. Il calo della produzione, dovuto probabilmente al clima estremamente freddo che ha arrestato alcune produzioni onshore in Nord America, dovrebbe comunque essere di breve durata.

Il rischio maggiore è il presidente Trump

Il rischio sistemico più ampio per le materie prime quest’anno potrebbe però essere rappresentato dallo stesso Presidente Trump, l’unico, secondo Citigroup, a poter turbare l’ordine politico mondiale. Un eventuale rinnovo delle sanzioni degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, il terzo più grande produttore Opec, ad esempio, è probabile che possa contribuire a tagliare almeno 500mila barili di export della nazione mediorientale, con conseguente aumento di prezzo del petrolio di almeno 5 dollari al barile, ha ammesso la banca. Stesso discorso anche per il fronte nordcoreano dove è presente il rischio “non trascurabile” di un conflitto militare. Infine, secondo Citigroup,  i disordini in Iran, così come le interruzioni dell’approvvigionamento in Iraq, Libia, Nigeria e Venezuela potrebbero vedere la fornitura globale di petrolio calare di oltre 3 milioni di barili al giorno quest’anno. Mentre un inasprimento eccessivo delle normative ambientali in Cina, il superamento o una performance più bassa della produzione di shale oil negli Stati Uniti, così come una forte escalation negli attriti commerciali tra l’amministrazione di Trump e la Cina potrebbero rappresentare altri rischi temibili per il rialzo dei prezzi del petrolio.petrolio usa

Il presidente dell’Opec Suhail al-Mazrouei auspica un mercato di nuovo in equilibrio nel 2018

Il ministro del petrolio degli Emirati Arabi Uniti e attuale presidente dell’Opec Suhail al-Mazrouei auspica un mercato di nuovo in equilibrio nel 2018.   Ma soprattutto un rispetto degli impegni dei produttori al patto di riduzione dell’offerta fino alla fine di quest’anno. I tagli alla produzione operati dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio e dalla Russia, dovrebbero continuare, infatti, per tutto il 2018, garantendo il sostegno dei prezzi, nonostante la pressione al ribasso emersa nel mercato fisico, dovuta al taglio dei prezzi operato in settimana da Iran e Iraq per cercare di rimanere competitivi.

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