Grandi produttori europei di acciaio stanno puntando sull’idrogeno per ridurre (o eliminare) le emissioni inquinanti dei processi siderurgici
La combustione del carbone – o più precisamente del coke – è da secoli alla base del processo di produzione della ghisa e dell’acciaio. Un processo che però libera grandi quantità di anidride carbonica: in media, ad ogni tonnellata di acciaio prodotta corrispondono circa 1,85 tonnellate di CO2. Il settore siderurgico è responsabile del 7-9 per cento di tutte le emissioni dirette a livello globale.
Nel mondo però è in corso una transizione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, e molti governi hanno fissato degli obiettivi, spesso ambiziosi, di riduzione e azzeramento delle emissioni nette di gas serra. Alcuni produttori di acciaio, scrive il Financial Times, stanno allora puntando sull’idrogeno – l’elemento più abbondante nell’universo, benché non si trovi allo stato puro – per ripensare i processi produttivi eliminando le emissioni inquinanti.
COSA STA FACENDO ARCELORMITTAL
ArcelorMittal, il più grande produttore di acciaio in Europa – presente anche in Italia, ad esempio a Taranto – possiede l’unica struttura per la produzione di ferro per riduzione diretta in tutto il continente: si trova ad Amburgo, in Germania.
Il ferro metallico per riduzione diretta, noto anche come ferro spugnoso (sponge iron), si ottiene tramite un processo che consiste nella rimozione di una percentuale di ossigeno dal minerale di partenza. È un processo che non prevede la fusione e che solitamente utilizza il gas naturale, ma che al momento – come sottolinea il Financial Times – “rappresenta solo una piccola frazione della produzione di acciaio”.
ArcelorMittal ha intenzione di costruire un secondo impianto, più piccolo, per la produzione di ferro per riduzione diretta vicino a quello di Amburgo. Nella nuova struttura, però – dal costo di 110 milioni di euro –, utilizzerà l’idrogeno.
Al di là della riduzione diretta, ArcelorMittal sta valutando l’uso dell’idrogeno anche nei processi “convenzionali” per la produzione di acciaio. Per esempio nello stabilimento di Asturias, in Spagna, la società raccoglie il gas ottenuto durante l’operazione per l’ottenimento del coke – un gas formato da idrogeno per il 60 per cento – per utilizzarlo nell’altoforno.
Secondo le stime di ArcelorMittal, il parziale rimpiazzo del carbone permetterà di ridurre le emissioni di CO2 di circa 200mila tonnellate all’anno (il 5-6 per cento in meno). La società si è impegnata a tagliare del 30 per cento le proprie emissioni di anidride carbonica in Europa entro il 2030.
IL PIANO DELLA SVEZIA
Anche SSAB, azienda svedese, ha grandi piani per la decarbonizzazione di ogni fase del processo produttivo e afferma di voler ottenere il primo acciaio fossil-free al mondo entro il 2026.
SSAB, insieme alla compagnia mineraria svedese LKAB e alla compagnia statale dell’energia elettrica Vattenfall, hanno stilato un piano per la produzione di ferro per riduzione diretta, che entrerà in vigore dal prossimo anno e che prevede l’utilizzo di idrogeno “verde”.
Con idrogeno verde si intende quello ottenuto a partire dalle fonti rinnovabili, che andranno a generare l’energia elettrica necessaria al processo di elettrolisi. Nel caso di SSAB, l’energia elettrica sarà fornita dall’idroelettrico.
LKAB, nello specifico, sta studiando delle opzioni alternative per la produzione di pellet di minerale ferroso che prevedono l’uso di idrogeno oppure di bio-olio.
IL PROBLEMA DEI COSTI
Sia SSAB che ArcelorMittal ricordano che ci sono delle problematiche tecniche ancora da risolvere per quanto riguarda l’utilizzo dell’idrogeno nei processi siderurgici.
Il problema principale, però, riguarda i costi, che potrebbero compromettere l’affermazione delle tecnologie a idrogeno verde su scala commerciale.
ArcelorMittal sostiene che oggi il costo dell’idrogeno sia almeno quattro volte superiore a quello del carbone, rendendo sconveniente il suo utilizzo tenendo conto dei prezzi di vendita dell’acciaio. SSAB stima invece che l’idrogeno verde renderà le operazioni più costose del 20-30 per cento, almeno nei primi periodi.
Il Financial Times riporta l’opinione di Chris Goodall, analista del settore energetico, che sostiene che, se l’intera industria siderurgica dovesse passare all’idrogeno entro il 2050, sarebbe necessario duplicare i volumi di idrogeno disponibili a livello mondiale. La capacità di generazione elettrica a partire da fonti rinnovabili – Goodall si concentra sulle turbine eoliche – dovrà inoltre aumentare del 30 per cento, dato che gli elettrolizzatori (le macchine che servono a separare l’idrogeno dall’acqua) hanno bisogno di energia elettrica per funzionare.
L’Unione europea stima che entro il 2030 l’idrogeno verde costerà circa 1,5 dollari al chilo, rispetto ai 4-8 dollari attuali.