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Cina Eolico Offshore

Come la Cina gestirà il distacco dal carbone

Oltre alla CO2, la Cina dovrà gestire i milioni di lavoratori dell’industria del carbone, che rischiano di rimanere in larga parte disoccupati

Nell’annunciare, lo scorso settembre, che la Cina avrebbe raggiunto la neutralità carbonica entro il 2060, il presidente Xi Jinping ha dato all’industria del carbone quarant’anni di tempo per prepararsi alla transizione energetica. Non significa però che il settore dovrà necessariamente scomparire: Bloomberg nota che potrebbe sopravvivere, ma dovrà trovare un modo per “catturare” le emissioni di gas serra generate dalla combustione del carbone. Oltre alla CO2 prodotta, Pechino dovrà anche gestire le decine di milioni di persone che lavorano – direttamente o meno – nel settore, e che rischiano di rimanere in larga parte disoccupate.

UN DISTACCO GRADUALE

In Cina il distacco dal carbone sarà probabilmente graduale e seguirà un approccio a due velocità. Gli scienziati climatici all’Università Tsinghua di Pechino hanno proposto di continuare a permettere la costruzione di centrali a carbone fino al 2030, quando il paese – secondo i piani – sarà più ricco e le tecnologie per le energie pulite saranno maggiormente sviluppate: come quelle come per la cattura e lo stoccaggio del carbonio, ad esempio. Dal 2030 in poi, invece, il passaggio al solare, all’eolico e al nucleare dovrà accelerare fortemente.

Un phase-out di questo tipo, più “morbido”, permetterebbe di ridurre il rischio di instabilità sociale – una delle principali preoccupazioni del Partito comunista cinese – legato ad eventuali licenziamenti di massa degli impiegati nell’industria del carbone. Un taglio dei posti di lavoro ci sarà lo stesso, ma sarà meno brusco.

LA DIGITALIZZAZIONE

Oltre alla transizione energetica, poi, l’occupazione è minacciata anche dalla crescente digitalizzazione delle attività: già oggi ai classici minatori si affiancano tecnici che si occupano di monitorare dati al computer; compagnie minerarie come Yangquan Coal Industry Group immaginano un futuro in cui l’automazione permetterà di superare la necessità di mandare persone a lavorare sottoterra.

CHI SI OPPONE

Le autorità e le grandi aziende statali dell’energia, intanto, continuano a puntare sul carbone attraverso la costruzione di nuovi impianti e di infrastrutture per il trasporto: nel 2019 è stata inaugurata la linea ferroviaria Haoji, un progetto da 30 miliardi di dollari che permette di trasportare 200 milioni di tonnellate di carbone all’anno dalle aree di produzione a quelle in cui la domanda di energia è più alta, come le regioni del sud-est.

Alcune compagnie energetiche si oppongono apertamente al passaggio alle energie pulite, diffondendo messaggi che fanno leva sul nazionalismo – lo sfruttamento delle riserve di carbone serve alla Cina per raggiungere l’autosufficienza energetica, sostengono: ma non è proprio così – e sulla capacità del carbone di dare stabilità alla rete elettrica, al contrario delle fonti rinnovabili che sono intermittenti nell’output.

COSA PENSANO GLI AMBIENTALISTI

I gruppi ambientalisti ritengono però che la Cina – il maggiore emettitore di gas serra al mondo – debba agire fin da subito per ridurre la propria capacità a carbone, oppure non riuscirà a raggiungere l’obiettivo di neutralità climatica al 2060. Alcune di queste organizzazioni, come il Draworld Center di Pechino, dicono che il paese deve diminuire la sua capacità a 680 gigawatt entro il 2030, invece che espanderla fino a 1300 GW.

DIFFICOLTÀ DI RICONVERSIONE

Ma certe province o città della Cina – come il centro minerario di Fuxin, nella provincia nordorientale del Liaoning – potrebbero faticare più di altre a riconvertire la propria economia al di là del carbone e trovare una nuova occupazione ai tanti impiegati. L’assemblaggio di turbine eoliche e di pannelli fotovoltaici non può essere l’unica soluzione, perché si tratta di un’attività che richiede molta meno manodopera rispetto ad una miniera.

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