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Petrolio

Il declino petrolifero dell’Angola contagerà la Nigeria?

Cinque anni fa l’Angola era il più grande produttore di petrolio in Africa: ad oggi però il suo output è diminuito di oltre un terzo. La Nigeria rischia la stessa sorte?

Solo cinque anni fa, l’Angola era il più grande produttore di petrolio in Africa. Dal 2015 ad oggi però il suo output è diminuito di oltre un terzo: la causa è innanzitutto nei minori investimenti delle compagnie internazionali, che hanno tagliato le spese a seguito di un calo dei prezzi del greggio. Il governo angolano ha cercato di stimolare l’attività estrattiva – scrive Bloomberg –, ma al momento risultano attivi giusto una manciata di pozzi nelle acque dell’Atlantico, dove si concentrano le riserve del paese.

Le cose potrebbero peggiorare ancora, per il settore petrolifero dell’Angola e dell’Africa più in generale. Il più importante produttore del continente e membro dell’OPEC, la Nigeria, potrebbe andare incontro allo stesso destino dell’Angola, nel caso in cui le grandi aziende petrolifere internazionali (le cosiddette “Big Oil”) dovessero procedere con nuovi e profondi tagli alla spesa.

IL RISCHIO DI INSTABILITÀ

Per l’Africa occidentale è una “lotta” competere in un contesto di scarsi investimenti, ha detto Gail Anderson, analista per la società di consulenza Wood Mackenzie, a Bloomberg. In gioco c’è la stabilità di una regione che dipende dalle entrate petrolifere.

I SEMI DEL DECLINO DELL’ANGOLA

L’economia dell’Angola, per l’appunto, è molto dipendente dalle esportazioni petrolifere. Ma l’output di greggio è ai minimi da quindici anni, al di sotto di 1,2 milioni di barili al giorno dallo scorso novembre. Perfino la Libia, dove l’industria petrolifera deve confrontarsi con un contesto di guerra civile ormai da parecchi anni, ha estratto più greggio dell’Angola a dicembre.

I “semi di questo declino”, scrive Bloomberg, sono stati piantati nel 2014, quando l’aumento della produzione petrolifera negli Stati Uniti – il cosiddetto “shale boom” – ha provocato un calo dei prezzi del petrolio. Nel giro di qualche anno il Brent è passato da 100 a meno di 30 dollari al barile; nel contempo, le Big Oil riducevano la spesa per gli investimenti nel mondo.

LA CRISI DELL’ANGOLA

I tagli all’offerta decisi dall’OPEC e dai suoi alleati ha permesso una risalita dei prezzi, ma le trivellazioni offshore nell’Africa occidentale hanno conosciuto una ripresa molto più lenta. Poi è arrivata la crisi del coronavirus e un nuovo crollo dei prezzi: stando ai dati elaborati dall’azienda di servizi petroliferi Baker Hughes, per la metà del 2020 c’era una sola nave perforatrice in attività nelle acque al largo della Nigeria e dell’Angola.

Siva Prasad, analista presso la società di ricerca Rystad Energy, ha spiegato a Bloomberg che gli investimenti in attività esplorative in Angola sono in calo dal 2014. Il settore ha retto grazie ad alcuni progetti offshore di Eni e Total, ma la pandemia “ha costretto quasi ogni compagnia del petrolio e del gas” a ripensare i propri piani di spesa.

LA QUESTIONE OFFSHORE

In questi anni l’Angola ha cercato di rallentare il declino del proprio settore petrolifero offrendo all’asta nuovi blocchi per le trivellazioni e ristrutturando l’azienda statale Sonangol.

Ciononostante, il paese stima per il 2021 una produzione media di 1,22 milioni di barili al giorno, troppo bassa anche per permetterle di trarre vantaggio dal rilassamento dei tagli dell’OPEC+ nei prossimi mesi dell’anno.

Il ministro delle Risorse minerarie e del petrolio dell’Angola, Pedro Azevedo, ha ammesso che “è colpa nostra, che non abbiamo investito di più nelle operazioni, non abbiamo investito di più nelle capacità di Sonangol, non abbiamo investito di più nella raffinazione”.

L’Angola dipende in particolare dai campi petroliferi offshore, il cui declino naturale è più rapido rispetto a quelli onshore. Senza investimenti costanti per migliorare il tasso di recupero dei pozzi o senza iniziare lo sfruttamento di nuove riserve, i livelli produttivi possono calare rapidamente.

COME ANDRÀ LA NIGERIA

I due terzi circa della produzione petrolifera della Nigeria arrivano invece da campi nelle acque profonde e a terra. Secondo Anderson di Wood Mackenzie, però, “il motore della crescita” del paese per gli anni a venire potrebbero essere le trivellazioni nelle acque profonde.

Il paese però potrebbe faticare ad attirare investitori, dato che nel 2019 ha aumentato le royalties per le attività di sfruttamento nelle acque profonde.

“Il problema dell’Angola”, ha detto Anderson, “è che la produzione nelle acque profonde era già in fase di rallentamento”: termini fiscali più invitanti, quindi, “non cambieranno il contesto generale. La Nigeria d’altra parte ha più scelta e potrebbe chiaramente produrre di più” se si doterà del “giusto” quadro regolatorio e fiscale.

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