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La nullità delle convenzioni ante 2010 Comuni-produttori FER è un revirement del Consiglio di Stato?

Il caso riguarda una convenzione stipulata nel 2008 per la realizzazione di un parco eolico, che prevedeva il pagamento di un canone annuo pari al 7,5% degli introiti dalla produzione di energia elettrica, a fronte dell’impegno comunale a “non compiere alcuna attività che possa risultare di intralcio” alla realizzazione e gestione del sito

La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 6161 del 14 luglio 2025, potrebbe segnare un punto di svolta nella giurisprudenza amministrativa in materia di misure compensative per impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili.

Il caso riguarda una convenzione stipulata nel 2008 per la realizzazione di un parco eolico, che prevedeva il pagamento di un canone annuo pari al 7,5% degli introiti dalla produzione di energia elettrica, a fronte dell’impegno comunale a “non compiere alcuna attività che possa risultare di intralcio” alla realizzazione e gestione del sito.

La vicenda processuale – scrive l’avvocato Massimo Ragazzo sulla rivista “Il Pianeta Terra” – si articola su due gradi di giudizio: il TAR Abruzzo, con sentenza n. 11 del 2023, aveva respinto il ricorso della società — proposto, tra l’altro, proprio per far accertare la nullità della convenzione per mancanza di causa — ritenendo valida la convenzione alla luce dell’art. 1, comma 953, della legge n. 145 del 2018 e della sentenza della Corte costituzionale n. 46 del 2021.

Il Consiglio di Stato, invece, accoglie l’appello della società e dichiara la nullità parziale della clausola convenzionale, introducendo un’interpretazione innovativa fondata sul principio della causa “in concreto” del contratto.

IL QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO

L’art. 12, comma 6, del d.lgs. n. 387 del 2003 stabiliva che l’autorizzazione unica per l’installazione di impianti da fonti rinnovabili (FER) “non può essere subordinata né prevedere misure di compensazione a favore delle regioni e delle province”. Tale divieto riguardava esclusivamente gli enti titolari del potere autorizzatorio, non estendendosi ai Comuni.

L’art. 1, comma 5, della legge n. 239 del 2004 riconosceva invece agli enti locali “il diritto di stipulare accordi con i soggetti proponenti che individuino misure di compensazione e riequilibrio ambientale”, senza specificarne il contenuto. La Corte costituzionale, con sentenza n. 383 del 2005, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’originaria esclusione degli impianti da fonti rinnovabili dall’ambito applicativo di tale norma.

Lo spartiacque normativo è rappresentato dalle Linee guida nazionali approvate con decreto ministeriale 10 settembre 2010, entrate in vigore il 3 ottobre 2010, che hanno introdotto una disciplina più restrittiva: divieto di misure compensative “meramente patrimoniali”, obbligo di definizione in sede di conferenza di servizi, limite massimo del 3% dei proventi annui.

LA NORMA “CONFERMATIVA”

L’art. 1, comma 953, della legge n. 145 del 2018 (legge di bilancio 2019) ha disposto che “i proventi economici liberamente pattuiti dagli operatori del settore con gli enti locali, nel cui territorio insistono impianti alimentati da fonti rinnovabili, sulla base di accordi bilaterali sottoscritti prima del 3 ottobre 2010, restano acquisiti nei bilanci degli enti locali, mantenendo detti accordi piena efficacia”, prevedendo tuttavia l’obbligo di revisione degli stessi alla luce dei criteri contenuti nelle Linee guida del 2010.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 46 del 2021, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, affermando che la norma ha “natura sostanzialmente confermativa del fatto che le prescrizioni delle linee guida del 2010, che orientano la revisione degli accordi per il futuro, mentre per il passato non condizionano e non pregiudicano l’efficacia degli stessi, atteso che il citato decreto ministeriale non prevedeva la sua applicazione retroattiva agli accordi già stipulati”.

LA GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA CONSOLIDATA

Sulla base di tale quadro normativo e dell’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale, si era consolidato un orientamento giurisprudenziale pressoché unanime che riconosceva la piena validità delle convenzioni stipulate prima del 3 ottobre 2010, anche quando prevedessero misure compensative meramente patrimoniali.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 838 del 7 febbraio 2022, aveva affermato che “le differenti regole poste dalle linee guida del 2010 (…) non trovano applicazione a convenzioni stipulate prima del 2010, perché non ne è stata prevista l’applicazione retroattiva agli accordi già stipulati e ogni dubbio sulla loro validità è superato dalla norma confermativa adottata con l’art. 1, comma 953, l. n. 145 del 2018”. Analoga conclusione è stata raggiunta con la sentenza n. 691 del 1° febbraio 2022.

IL “REVIREMENT” DEL CONSIGLIO DI STATO: LA NULLITÀ PER DIFETTO DI CAUSA IN CONCRETO

La sentenza n. 6161/2025 segna una netta discontinuità rispetto all’orientamento consolidato, introducendo un’interpretazione innovativa fondata sul principio della causa in concreto del contratto. Il Collegio afferma che “la clausola contenuta nell’art. 4 della convenzione sia nulla perché priva di una causa in concreto e, comunque, non diretta a perseguire interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Tale conclusione si fonda su una duplice argomentazione.

In primo luogo, il Consiglio di Stato richiama i principi elaborati dalle Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 5657 del 2023, in materia di meritevolezza degli interessi ai sensi dell’art. 1322, comma 2, cod. civ. La Suprema Corte ha chiarito che “la meritevolezza è un giudizio e deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso perseguito”, e che un risultato negoziale dovrà dirsi immeritevole “quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume o all’ordine pubblico”.

In secondo luogo, il Consiglio di Stato valorizza il principio della causa in concreto elaborato dalle Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 22437/2018, secondo cui occorre indagare “se lo scopo pratico del regolamento negoziale presenti un arbitrario squilibrio giuridico tra prestazioni”. Tale indagine non prescinde dalla “tensione ispiratrice dello scrutinio di meritevolezza” di cui all’art. 1322 c.c., e deve essere condotta alla luce delle norme costituzionali e sovranazionali.

L’APPLICAZIONE DEI PRINCIPI AL CASO CONCRETO

Applicando tali principi al caso di specie, il Consiglio di Stato rileva che la convenzione prevede “una somma che può assumere importi molto rilevanti (7,5% dell’importo, al netto dell’IVA, del totale degli introiti percepiti e fatturati annualmente dalla società per la produzione di energia elettrica), perché è calcolata sul totale degli introiti percepiti e fatturati annualmente dalla società appellante; somma che non ha quindi una soglia massima determinata, ma dipende dall’andamento dell’attività di impresa”.

Tale clausola, secondo il Collegio, “non è supportata da un’adeguata giustificazione, non rinvenibile nell’unico obbligo che il Comune ha assunto nella predetta convenzione, ovvero ‘a non compiere alcuna attività che possa risultare di intralcio alla esecuzione dei lavori e delle opere occorrenti alla realizzazione, alla gestione, alla manutenzione e al funzionamento dell’impianto’”.

Il Consiglio di Stato osserva che “tale obbligazione in capo all’ente resistente, in realtà, è meramente ricognitiva del principio di buona fede che governa i rapporti negoziali e anche gli accordi pubblici (art. 1, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990), perché, in ogni caso, il Comune, come qualunque altro soggetto, anche privato, non può legittimamente compiere attività deliberatamente di intralcio alla realizzazione, gestione, manutenzione e funzionamento dell’impianto”.

LA DISTINZIONE RISPETTO ALLA SENTENZA N. 838/2022

Il Consiglio di Stato si preoccupa di distinguere il caso di specie dalla precedente sentenza n. 838 del 2022, che aveva riconosciuto la validità di una convenzione stipulata nel 2006 tra il Comune di Serracapriola e un operatore del settore eolico.

Il Collegio rileva che in quel caso “il canone di concessione complessivo fissato per l’intera durata della convenzione (…) era giustificato da una pluralità di obbligazioni assunte dall’Amministrazione”, tra cui concessione di terreni, costituzione di diritti, servitù, opere accessorie, indennità e compensazioni per i disagi arrecati.

Si trattava, dunque, di una convenzione “strutturata in modo decisamente differente” rispetto a quella oggetto del presente giudizio, che “si è limitata a prevedere il pagamento di un canone annuo senza adeguata giustificazione”.

LE IMPLICAZIONI SISTEMATICHE DELLA DECISIONE

La sentenza n. 6161/2025 introduce un criterio di valutazione della validità delle convenzioni “ante 2010” che prescinde dalla mera collocazione temporale della stipula, valorizzando invece il contenuto concreto dell’accordo e la sua idoneità a perseguire interessi meritevoli di tutela. Tale approccio si pone in linea con i principi civilistici sulla causa in concreto, ma introduce un elemento di incertezza nel panorama amministrativo, che aveva finora riconosciuto una sostanziale “immunità” alle convenzioni stipulate prima del 3 ottobre 2010.

LA PORTATA DELL’ART. 1, COMMA 953, DELLA LEGGE N. 145 DEL 2018

Un aspetto centrale riguarda l’interpretazione dell’art. 1, comma 953, della legge n. 145 del 2018. Il Consiglio di Stato afferma che “la norma, riferendosi al ‘mantenimento dell’efficacia’ delle vecchie pattuizioni, esclude dal suo ambito applicativo i contratti nulli che non producono effetto ab origine”.

Tale interpretazione si pone in contrasto con l’orientamento consolidato, secondo cui la norma del 2018 aveva natura “sostanzialmente confermativa” della validità degli accordi stipulati prima del 3 ottobre 2010, come affermato anche dalla Corte costituzionale con sentenza n. 46/2021.

Il Collegio, tuttavia, ritiene che la norma non possa operare una “sanatoria” di convenzioni affette da nullità originaria per difetto di causa o per perseguimento di interessi non meritevoli di tutela, trattandosi di vizi strutturali del contratto.

LE CONSEGUENZE PRATICHE DELLA DECISIONE

La sentenza n. 6161/2025 apre la strada a una possibile revisione di numerose convenzioni stipulate prima del 3 ottobre 2010, ritenute finora valide ed efficaci. Gli operatori del settore potranno invocare la nullità delle clausole che prevedono misure compensative meramente patrimoniali prive di adeguata giustificazione causale, chiedendo la restituzione delle somme versate. I Comuni, dal canto loro, dovranno valutare attentamente la tenuta delle convenzioni stipulate prima del 2010 alla luce dei nuovi principi interpretativi.

LE QUESTIONI APERTE

La decisione solleva diverse questioni interpretative, tra cui:

– i criteri per valutare l’adeguatezza della giustificazione causale delle misure compensative nelle convenzioni “ante 2010”;

– l’applicabilità del criterio della causa in concreto alle convenzioni che prevedano anche prestazioni specifiche del Comune;

– gli effetti della nullità parziale sulla sopravvivenza dell’intera convenzione ex art. 1419 c.c.

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