Le case cinesi guardano all’Ue per la produzione e schifano l’Italia, Orsini (Confindustria) spinge a continuare a spingere per modificare stop a endotermiche dal 2035 e puntare sul nucleare, ostacoli e rischi del Ponte sullo Stretto, la Cina sta vincendo la corsa alle materie prime. La rassegna dei giornali
Le case produttrici cinesi guardano all’Unione Europea per nuovi stabilimenti e si allontano dall’Italia perché “è difficile”. Il neo presidente di Confindustria esorta a continuare la battaglia contro lo stop alle auto endotermiche e per lo sviluppo del nucleare. Intanto la Cina guadagna il podio nella corsa alle materie prime. Il Ponte sullo Stretto non è tutto rose e fiori, ostacoli e rischi
AUTO, LE CINESI GUARDANO ALL’UE PERCHÉ IN ITALIA “È DIFFICILE”
“(…) Facile a dirsi, difficile da realizzarsi, soprattutto se si tratta dell’Italia. I principali produttori cinesi di auto hanno orientato la rotta verso l’Europa: vogliono aprire stabilimenti dove produrre veicoli per il mercato dei ventisette Paesi Ue. Alcuni accordi sono già stati chiusi, vedi Byd in Ungheria e Chery in Spagna. E non mancano i contatti con il governo italiano, dove il ministro delle Imprese Adolfo Urso vorrebbe portare un secondo grande produttore nel Belpaese, anche cinese. Ma trovare la fabbrica e l’intesa giusta, quando si tratta di Roma, è cosa complessa”, si legge sull’edizione odierna de La Repubblica.
“(…) «Non c’è una fabbrica pronta a essere rimessa subito in moto, non c’è un sito plug&play, come si dice in gergo», racconta Andrea Bartolomeo, country manager e vice president di Saic Motor Italy, gruppo che sul mercato italiano è noto per il marchio MG. Lo storico brand inglese è stato rilanciato e sta conquistando fette di mercato.
La strategia dei gruppi cinesi è simile: cercano in prima battuta fabbriche di auto dismesse da riaprire. Come nel caso dell’ex stabilimento Nissan di Barcellona rilevato da Chery, per una prima piccola produzione. E poi aree dove costruire, in un secondo momento, un sito per rispondere alla crescita della domanda”, continua il quotidiano Gedi.
“«Noi vogliamo aprire due stabilimenti in Europa – spiega Bartolomeo – l’Italia è nella short list, insieme a Germania, Spagna e Ungheria. La sua posizione si è rafforzata rispetto a febbraio, ma non rispetto alla scelta della prima fabbrica, che dovrebbe produrre intorno alle 50 mila auto. Rimane favorita per la costruzione di un secondo stabilimento da oltre 100 mila pezzi ». La decisione da parte di Saic è attesa nel giro di un paio di mesi. Ma l’Italia non dispone di fabbriche chiuse da reindustrializzare? Non proprio. I siti ci sono, ma non sono adatti secondo i criteri dei cinesi. Anche un altro grande gruppo si ritrova con lo stesso problema: Bruno Monfrici, capo di Dongfeng Italia (che ha come socio Paolo Berlusconi) racconta di aver bussato alle porte della fabbrica di Grugliasco, nell’hinterland di Torino, sito ex Maserati dismesso da Stellantis, gruppo che ha come primo azionista Exor che controlla Repubblica”, si legge sul quotidiano.
“(…) Lo sbarco nella Ue è un passaggio necessario. Il “New brand observatory” della società di consulenza sull’automotive Quintegia considera l’Italia appetibile per 22 marchi asiatici: nove sono già presenti, altri 13 sono pronti a entrare nel corso del 2024. C’è un problema logistico. Più il mercato del Vecchio Continente cresce più è complicato rifornirlo solo dalla Cina. Inoltre, i gruppi che puntano al controllo del mercato delle auto elettriche (e non solo) della Unione Europea temono, dopo il raddoppio dei dazi negli Stati Uniti, dove i tassi di import supereranno il 100%, una misura analoga da parte di Bruxelles. Dalle indiscrezioni, in Europa si passerà dal 10% al 27,5%”, continua il quotidiano Gedi.
“(…) Una misura che provocherebbe una guerra commerciale con la Cina, pronta per ritorsione a colpire soprattutto l’importazione di auto di grande cilindrata e premium, ma costringerebbe allo stesso tempo i produttori ad accelerare sulla ricerca delle fabbriche in Europa. «I cinesi sono ben consapevoli che l’Europa sarà costretta ad alzare le barriere commerciali come hanno fatto gli Stati Uniti. Questo vuol dire che il mercato americano si è chiuso e che la sovrapproduzione cinese inonderà il mercato europeo. L’Europa dovrà tutelarsi», sostiene Urso”, si legge su La Repubblica.
“(…) Urso si riferisce anche alla joint venture di Stellantis con Leapmotor. Le auto della cinese di Hangzhou arriveranno a settembre. Per ora saranno commercializzate, ma è possibile che in Europa arrivi anche una quota di produzione. In pole position c’è la Polonia, ma come ha detto l’ad di Stellantis, Carlos Tavares, dipende da fattori come «la qualità e i costi» e quindi cosa gli Stati potranno mettere sul tavolo”, conclude il giornale.
ORSINI (CONFINDUSTRIA): “AVANTI SU AUTO E NUCLEARE”
“L’Unione europea è importante, ma non possiamo accettare una politica anti-industriale». La prossima Commissione dovrà avere politiche a favore delle imprese». La prima di Emanuele Orsini come presidente di Confindustria avviene al Festival dell’Economia di Trento ed è quasi un discorso programmatico. Non a caso si fa riferimento alle «priorità del nostro tempo». Che fra guerre e incertezza economica, è di difficile lettura. Ma con alcuni punti fermi. Come «lo stop nel 2035 ai motori endotermici, che non può esistere». O come l’adozione del nucleare, considerato fondamentale da Orsini. Intanto, l’imprenditore manda anche un messaggio a governo e opposizione: «Siamo pronti a dialogare»”, si legge sull’edizione odierna de La Stampa.
“(…) Orsini sottolinea che «l’Ue per noi è fondamentale e altrettanto è che chi arriverà dopo il voto ci spieghi che idea di Europa ha». Il riferimento è al Green Deal, alla transizione ecologica. «I nostri consumatori ci chiedono più attenzione all’ambiente ma allo stesso tempo non possiamo accettare politiche contro le imprese», fa notare. Due gli esempi che utilizza, entrambi di primo acchito. Il primo riguarda la normativa sugli imballaggi, i cui effetti sono ancora ignoti. Per il secondo, di contro, parla di automotive. Lo stop al 2035 dei motori a scoppio è da considerarsi irricevibile. «Dietro c’è una filiera importantissima e il tema della competitività è cruciale», fa notare facendo riferimento alle sirene cinesi. Pertanto, «occorre ricordare che la transizione di oggi mette in difficoltà le imprese, mentre invece deve essere fatta in modo ordinato». Parole che raccolgono consensi nella platea”, si legge sul quotidiano Gedi.
“La competizione globale preoccupa. È per tale ragione, fa notare Orsini, che bisogna agire di concerto con la nuova Europa. Senza pregiudizi, ma con una netta identità per fronteggiare le sfide globali. Cita le vetture cinesi, i fattori della produzione, il concetto di produzione di veicoli sul territorio del Vecchio continente (meglio se in Italia, lascia intendere) e le sfide che si possono affrontare, dal lato italiano, con minore burocrazia, un cuneo fiscale più facilitativo e più velocità. Su quest’ultimo punto Orsini si sfoga: «Con Industria 5.0 servono i decreti attuativi domattina, li stiamo aspettando da dicembre. La gente li sta attendendo per gli investimenti. Non è pensabile che siano ancora in questa situazione».”, si legge sul quotidiano Gedi.
“I pensieri dell’imprenditore nato a Sassuolo tornano a Bruxelles e al percorso di decarbonizzazione dell’economia continentale. Apprezza gli sforzi messi in campo, ma domanda più risolutezza di fronte ai problemi di gestione della transizione verde, che considera necessaria ma con alcuni paletti precisi che tengano conto dei produttori manifatturieri. «Siamo per il dialogo – ribadisce -, ma siamo anche a favore di posizioni pro-industria, che sono quelle che servono oggi all’Europa di domani».”, conclude il giornale.
TRANSIZIONE, CINA STA VINCENDO CORSA A MATERIE PRIME
“(…) Più scendono, più i grandi e lunghi investimenti necessari ad aprire nuove miniere diventano insostenibili per chi opera in una logica di mercato. Invece, per i produttori cinesi , che possono contare su sussidi e finanziamenti di un regime per cui il controllo delle materie prime è un’ossessione, la logica non vale. Anzi il sospetto – avanzato dal governo americano, che non a caso ha incluso i minerali critici nell’ultimo pacchetto di dazi – è che stiano abbassando i prezzi di proposito per soffocare sul nascere i potenziali concorrenti. Come un cartello, una Opec non del petrolio ma dei minerali, e per giunta costituita da un Paese solo. Paese che all’occorrenza usa il potere economico anche come arma politica”, continua il quotidiano.
“(…) Ora recuperarne una fetta per le potenze democratiche appare un’impresa. Per l’Europa, le cui aziende sono poche e piccole, ancora di più: «Buona parte dell’obiettivo dipende dalle imprese private – spiega Francesca Ghiretti, ricercatrice del think tank Csis, dove si occupa di sicurezza economica – ma non è chiaro in che misura il regolamento europeo risponda alle loro esigenze». Nel Critical Raw Materials Act grande enfasi è sull’autosufficienza, con l’ambizioso obiettivo di raggiungere il 10% dell’estrazione e il 40% della raffinazione dei materiali critici in Ue entro il 2030, oltre a un 25% di riciclo. Ma il solo strumento che mette in campo sono permessi accelerati”, scrive il giornale.
“(…) Mettere in funzione giacimenti è progetto costoso, lungo un decennio, delicato dal punto di vista ambientale. E anche nella migliore delle ipotesi far tornare l’Europa una terra di miniere soddisferebbe una minima quota della sua futura domanda.
La parte più concreta della strategia pare dunque la collaborazione con i Paesi estrattori. Di recente la Commissione ha siglato partnership con Cile, Argentina, Canada, Kazakistan, Congo. Anche su queste però Ghiretti ha dubbi: «Sono accordi governativi, memorandum non vincolanti dove spesso manca il coinvolgimento delle aziende, mentre quelle cinesi sono presenti negli stessi Paesi e coinvolte in grandi progetti di estrazione »”, si legge su La Repubblica.
“(…) L’ipotesi migliore è che i governi uniscano le forze per creare progetti e consorzi di imprese europei, la peggiore che lottino per assicurarsi ciascuno la sua piccola fetta: «C’è il rischio di una ridondanza di sussidi e di una competizione interna, quando invece il coordinamento è fondamentale» dice Ghiretti”, conclude il quotidiano.
“Dopo aver capito tardi i rischi della dipendenza dal gas russo, l’Europa prova a curarne per tempo un’altra, ugualmente strategica. Riguarda le materie prime critiche, una trentina di elementi insostituibili per le industrie verdi, hi-tech e della difesa il cui consumo esploderà e che oggi la Ue importa quasi per intero, per lo più da un solo fornitore, spesso cinese. Sono il litio, il nickel e il cobalto delle batterie elettriche, il boro delle turbine eoliche, il magnesio per aerei e satelliti, le terre rare di schermi e laser. Un passo è fatto: due mesi fa è entrato in vigore un regolamento che ha l’obiettivo di ridurre questa dipendenza, da un lato incrementando estrazione e raffinazione in Europa, dall’altro accordandosi con i Paesi ricchi di risorse per diversificare le forniture. Anche i singoli governi hanno inquadrato il tema: la Francia sta lanciando un fondo da 2 miliardi per investire nel settore, Italia e Germania veicoli da un miliardo”, si legge sull’edizione odierna de La Repubblica Affari e Finanza.
“(…) Gli Stati Uniti, che nel grande piano verde di Biden hanno stanziato 8 miliardi e rotti di dollari. E soprattutto la stessa Cina, le cui gigantesche imprese, di Stato o dallo Stato supportate, continuano a investire in nuove miniere e capacità di raffinazione, intenzionate a tenere il mondo alle proprie dipendenze. “La Cina sta vincendo la guerra dei minerali”, dice il Wall Street Journal,un campanello d’allarme per le ambizioni di resilienza occidentali. Le cifre mostrano che per molte materie prime, per esempio litio e cobalto, la quota di mercato cinese non solo non scende, ma cresce. E la cronaca racconta di imprese del Dragone che vincono a suon di miliardi concessioni in Argentina o Congo e moltiplicano gli impianti di trasformazione in Indonesia, mentre quelle americane o australiane mettono in pausa progetti per problemi finanziari”, continua il quotidiano.
OSTACOLI E RISCI DEL PONTE SULLO STRETTO
“Il Ponte sullo Stretto di Messina appare e scompare quasi a ogni cambio di governo. L’ultimo «no» è di Mario Monti. Nel 2012 il governo rileva gravi carenze nel progetto definitivo del 2011 e chiede di dettagliare gli aspetti finanziari e la sostenibilità generale dell’opera, pena la liquidazione della società Stretto di Messina. Le integrazioni non arrivano e il governo il 15 aprile 2013 nomina un commissario liquidatore. Nell’estate 2020 l’esecutivo Conte ripropone l’idea con il piano di rilancio delle infrastrutture inserito nel Pnrr. Viene nominata una commissione di 16 esperti per esaminare possibili alternative e stanziati 50 milioni per un nuovo progetto di fattibilità. Dopo le elezioni del 2022 il neoministro dei Trasporti Matteo Salvini decide di usarli per riattivare la società Stretto di Messina”, si legge sull’edizione odierna de Il Corriere della Sera.
“(…) Il 29 settembre 2016 ad Agorà Salvini dice: «Più di una volta la Lega ne ha sottolineato le perplessità». Diventato ministro, il leader della Lega decide che «il Ponte è una priorità». Il 31 marzo 2023 il governo emana il decreto che fissa il termine per il progetto esecutivo al 31 luglio 2024 sulla base di quello definitivo del 2011 che va «integrato» da una relazione aggiornata del progettista. Si rispolvera anche il soggetto deputato alla realizzazione dell’opera: il consorzio Eurolink che aveva vinto la gara e ha ancora in ballo una causa con lo Stato da 657 milioni di euro per l’interruzione del 2013, persa in primo grado e ora in appello, ma che ha promesso di ritirare con la ripartenza dei lavori”, continua il maggiore quotidiano nazionale.
“(…) Si riparte dunque dal vecchio progetto, bocciato anche dalla commissione di esperti del Mit ad aprile 2021. Il problema posto dagli ingegneri è che non esiste ancora la tecnologia per un’infrastruttura di quel tipo a campata unica. Lo stesso anno le università di Catania e Kiel (Germania) annunciano la scoperta di una faglia attiva di 34,5 km lungo lo stretto di Messina, mai mappata, che ha deformato il fondale marino e che è in grado di scatenare terremoti di magnitudo 7,1. Il livello massimo sopportabile dalla struttura”, continua il maggiore quotidiano nazionale.
“(…) Intanto il 3 aprile la Stretto di Messina avvia l’iter per l’esproprio sulle sponde siciliana e calabra: i cittadini coinvolti devono rispondere entro il 2 giugno. Si stimano 500 edifici (fra abitazioni e immobili commerciali) e 1.500 proprietà terriere, in totale 370 ettari. Ma prima di sottoporre il progetto definitivo al Cipess, che per legge approva i progetti infrastrutturali strategici, occorre acquisire le osservazioni degli enti locali coinvolti attraverso le Conferenze dei servizi. Ma è complicato fornire osservazioni se ancora non ci sono gli adeguamenti richiesti dal Comitato scientifico e dai ministeri dell’Ambiente e della Cultura. E senza l’ok del Cipess non si può procedere con gli espropri e aprire i cantieri. Il 3 maggio prende carta e penna anche l’Ordine degli ingegneri della Provincia di Messina: «Alla luce della vigente normativa antisismica il progetto definitivo non risulta adeguato»”, si legge su Il Corriere della Sera.
“(…) Intanto da gennaio 2023 il valore di case e terreni è crollato. Anche sulle aree circostanti è piombata l’incertezza: chi vuole acquistare casa non riesce a stipulare un mutuo perché la banca con il vincolo di esproprio non può mettere l’ipoteca. Il vincolo blocca anche tutti i progetti delle amministrazioni pubbliche, inclusi quelli del Pnrr, come la riqualificazione dell’area di Forte Beleno a Villa San Giovanni, su cui era partito un investimento di 1,5 milioni”, si legge sul quotidiano.
“(…) Dai 3,9 miliardi della gara del 2006 siamo passati ai 13,5 previsti dal documento della Stretto di Messina. La legge di Bilancio 2024 ne stanzia 11,6. Chi ce li mette gli altri? L’ipotesi di realizzarlo in project financing è già stata bocciata nel 2021 dalla commissione tecnica del Mit: «Appare evidente che la brevità del percorso di attraversamento non consente di prevedere un volume di pedaggi in grado di consentire una operazione di project financing». A oggi, quindi, l’opera non è interamente finanziata e non è nemmeno certo che costerà 13,5 miliardi perché sarà la Stretto di Messina, in sede di progetto esecutivo, a definire il prezzo finale. Eppure, nonostante tutti i problemi, il governo tira dritto. A chiedercelo è l’Europa, sostiene Salvini, per completare il corridoio TEN-T Palermo-Reggio-Roma-Milano-Berlino-Helsinki. (…) In sostanza il progetto più ampio su cui scommette l’Italia è rimasto quello del 2011 rilanciato per decreto. Quello che cambia è il costo: dai 3,9 miliardi di allora ai 13,5 di oggi. La direttiva europea del 2014 (art.72) impone una nuova gara quando un’opera costa il 50% in più di quella vecchia. Ostacolo aggirato perché nel 2012 i costi erano già saliti a 8,5 miliardi. Quindi nella migliore della ipotesi non si può sforare di un euro altrimenti si torna a nuova gara. Il dato certo è che il governo Monti aveva chiuso la partita perché le carte non mostravano la sostenibilità finanziaria e le cose non sono cambiate”, aggiunge il maggiore quotidiano nazionale.