Rapporto Confindustria 2025: l’Italia è il Paese Ue più colpito dai rincari energetici. Bene il rafforzamento del capitale, pesa il ritardo sugli investimenti immateriali.
L’industria manifatturiera italiana sta pagando il conto più salato d’Europa per l’escalation dei prezzi dell’energia. È quanto emerge con chiarezza dal Rapporto Industria 2025 del Centro Studi di Confindustria, intitolato “Manifattura in trasformazione: rimarrà ancora competitiva?”. A distanza di tre anni dallo shock energetico, l’incidenza dei costi dell’energia sul totale dei costi di produzione in Italia rimane superiore di oltre un punto percentuale rispetto alla media pre-pandemica (2018-2019). Un dato che contrasta nettamente con la situazione dei principali competitor europei: la Francia ha quasi del tutto riassorbito l’aumento, mentre la Germania registra un incremento più contenuto, pari allo 0,6%.
I SETTORI PIÙ COLPITI: METALLURGIA E CERAMICA IN SOFFERENZA
L’analisi settoriale evidenzia come il peso dei rincari non sia stato uniforme. I settori “energy intensive” sono stati i più penalizzati, con la metallurgia italiana che risulta la più colpita in assoluto a livello continentale. Impatti significativi si registrano anche nel comparto dei minerali non metalliferi (ceramica, vetro, cemento, gesso, laterizi e calce), dove l’incidenza dei costi energetici è salita di 2,5 punti percentuali, contro un aumento di poco superiore all’1% in Germania. Soffrono anche le filiere del legno e della gomma-plastica, con un incremento di circa 1,5 punti percentuali rispetto al periodo pre-Covid, triplo rispetto a quello osservato in Francia e Germania (meno dello 0,5%). Solo in settori come carta, elettronica e mobili gli aumenti sono stati più contenuti, pur confermando l’Italia come il Paese maggiormente svantaggiato in termini relativi.
SOLIDITÀ PATRIMONIALE E RIDUZIONE DEL DEBITO
Nonostante il fardello energetico, le imprese manifatturiere italiane hanno avviato un virtuoso processo di rafforzamento patrimoniale. La quota di capitale proprio sul totale del passivo è balzata dal 34,5% del 2007 al 48,9% del 2023, colmando il gap con i competitor europei. Parallelamente, l’indebitamento è sceso drasticamente: dal 100% del valore aggiunto nel 2011 al 56% nel 2024, con la quota di prestiti bancari ridotta al 12,3%. Questo consolidamento finanziario è cruciale per la produttività: il rapporto evidenzia come i vincoli finanziari possano ridurre la produttività di un’impresa tra il 5% e il 10%.
INVESTIMENTI: BENE I MACCHINARI, RITARDO SULL’IMMATERIALE
Sul fronte degli investimenti, l’Italia mostra luci e ombre. Gli investimenti in capitale fisso materiale tengono bene, attestandosi intorno al 25% del valore aggiunto (un dato superiore a Germania e Francia), spinti anche dagli incentivi dei piani Industria 4.0 e Transizione 5.0. Tuttavia, il Paese resta indietro sugli asset immateriali (software, R&S, design, competenze), che rappresentano i driver dell’innovazione moderna. Sebbene in crescita al 15% del valore aggiunto, la propensione all’investimento immateriale rimane distante dai livelli tedeschi (18%) e soprattutto francesi (23%).
EXPORT E DIMENSIONI D’IMPRESA: IL NODO DELLE MICRO
L’export si conferma il motore trainante, con un valore pari al 48,2% della produzione e un surplus commerciale di 120 miliardi di euro annui, guidato dalla meccanica strumentale. Tuttavia, il tessuto produttivo italiano sconta ancora l’elevata frammentazione: le microimprese pesano sulla produttività aggregata, pur essendo in atto un processo di selezione che ne ha ridotto il numero del 12%. Di contro, le medie e grandi imprese italiane si dimostrano più produttive delle omologhe tedesche e francesi, confermando la vitalità della manifattura nazionale nonostante le sfide energetiche e dimensionali.


