Gli analisti e gli operatori di mercato sono molto scettici sul fatto che Trump lo permetterà per due motivi: “in primo luogo, è molto sensibile agli alti prezzi del petrolio e vorrà evitare questo risultato; in secondo luogo, Trump preferisce concludere accordi bilaterali, piuttosto che aderire a formule rigide che gli legherebbero le mani nei negoziati”
È improbabile che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dia seguito alla sua minaccia di imporre dazi del 100% sui Paesi che acquistano petrolio russo, poiché ciò peggiorerebbe le pressioni inflazionistiche politicamente dannose, e la sua minaccia analoga contro gli acquirenti di petrolio venezuelano ha avuto un successo limitato, soprattutto in Cina.
LA MINACCIA DEI DAZI SULLE ESPORTAZIONI RUSSE
Come ricorda l’agenzia Reuters, Trump questo mese ha dichiarato che avrebbe imposto dei dazi secondari del 100% sui Paesi che acquistano esportazioni russe, a meno che Mosca non accetti un importante accordo di pace con l’Ucraina entro 50 giorni, termine che scadrà all’inizio di settembre.
La minaccia rispecchiava un annuncio di marzo secondo cui gli Stati Uniti avrebbero imposto dazi sugli acquirenti di petrolio venezuelano sanzionato. Da allora, nessun dazio del genere è stato imposto, nonostante l’aumento delle esportazioni di petrolio venezuelano.
I RISCHI DI APPLICARE DAZI SUL PETROLIO RUSSO
Clay Seigle, ricercatore senior e titolare della cattedra James Schlesinger in energia e geopolitica al Center for Strategic and International Studies, ha affermato, che se il dazio del 100% venisse applicato integralmente ai Paesi che ricevono petrolio russo, ciò potrebbe ridurre le forniture globali e far salire i prezzi.
Secondo Seigle, gli analisti e gli operatori di mercato sono molto scettici sul fatto che Trump lo permetterà per due motivi: “in primo luogo, è molto sensibile agli alti prezzi del petrolio e vorrà evitare questo risultato; in secondo luogo, Trump preferisce concludere accordi bilaterali, piuttosto che aderire a formule rigide che gli legherebbero le mani nei negoziati. Alcuni Paesi partner commerciali degli USA, proprio come gli operatori di mercato del petrolio, potrebbero liquidare la cosa come un atto di ostentazione”, ha spiegato il ricercatore.
IL PREZZO DEL PETROLIO E LA GUERRA DEI DAZI DI TRUMP
Il 16 luglio, due giorni dopo aver emesso la minaccia di dazi, Trump ha affermato che il prezzo del petrolio di 64 dollari al barile era un ottimo livello, che la sua amministrazione stava cercando di abbassarlo ulteriormente e che il basso livello “è una delle ragioni per cui l’inflazione è sotto controllo”. Da allora, i prezzi del greggio si sono mantenuti nella fascia dei 65 dollari, ignorando la minaccia di imminenti interruzioni dell’approvvigionamento.
Seigle ha affermato che l’attuale guerra commerciale di Trump, in particolare i dazi sull’acciaio, potrebbe far salire i prezzi delle materie prime per i trivellatori petroliferi negli Stati Uniti, il principale produttore mondiale di petrolio. Ciò potrebbe far salire i prezzi del greggio, proprio mentre iniziano le elezioni di mid-term del Congresso degli Stati Uniti, il prossimo anno.
LE POSSIBILI IMPLICAZIONI SULLE ELEZIONI USA DI MID-TERM
I repubblicani di Trump detengono una maggioranza risicata sia alla Camera che al Senato degli Stati Uniti e il presidente probabilmente eviterà azioni che facciano impennare i prezzi del petrolio durante la campagna elettorale, hanno affermato gli analisti. La portavoce della Casa Bianca, Anna Kelly, ha affermato che Trump ha dimostrato di mantenere le sue promesse: “è stato estremamente duro con Putin e ha intelligentemente lasciato tutte le opzioni sul tavolo, mantenendo in vigore le sanzioni esistenti. Recentemente, ha minacciato Putin con dazi e sanzioni pesanti, se non accetterà un cessate il fuoco”.
Il Dipartimento del Tesoro, che amministra le sanzioni, si è detto pronto ad agire: “come annunciato dal presidente Trump, la Russia ha 50 giorni per raggiungere un accordo per porre fine alla guerra, altrimenti gli Stati Uniti sono pronti a imporre sanzioni secondarie pesanti”, ha dichiarato un portavoce.
LA QUESTIONE DEL PETROLIO VENEZUELANO
La scarsa applicazione da parte dell’amministrazione Trump della minaccia tariffaria del 25% a marzo sugli acquirenti di petrolio venezuelano e la mancata imposizione di efficaci sanzioni energetiche alla Russia sono altri due motivi di scetticismo tra gli operatori di mercato.
La Cina, il principale cliente di petrolio del Venezuela, si sta adattando alle sanzioni statunitensi sulle esportazioni di petrolio fin dalla loro imposizione, nel 2019. Secondo le società di tracciamento delle petroliere, nell’ultimo anno il gigante asiatico ha acquistato oltre 1 miliardo di dollari di petrolio venezuelano, rinominato “brasiliano”. Le esportazioni venezuelane a giugno sono aumentate, poiché la perdita di acquirenti statunitensi ed europei è stata compensata dai carichi inviati in Cina.
LA POSIZIONE DEI PARTITI USA
È improbabile che il Congresso intervenga, nonostante il Senato degli Stati Uniti goda di un forte sostegno bipartisan ad un disegno di legge che imporrebbe dazi del 500% sugli acquirenti di petrolio russo. I leader repubblicani del Senato sono in attesa del via libera di Trump e non hanno dato alcuna indicazione di voler discutere il disegno di legge prima di lasciare Washington per la pausa di agosto.
Anche se il disegno di legge venisse approvato, probabilmente consentirebbe al presidente di revocare i dazi, consentendo ai parlamentari di dire di essere severi con la Russia, ma rendendo la legge per lo più simbolica. “Dal punto di vista del messaggio politico tutto ha senso, ma dal punto di vista di ciò che è necessario per l’autorità legale sulle sanzioni, è un po’ un grattacapo”, ha commentato Jeremy Paner, socio dello studio legale Hughes Hubbard & Reed ed ex investigatore delle sanzioni del Dipartimento del Tesoro USA.