Secondo uno studio della New Economics Foundation, solo Irlanda, Danimarca, Svezia e Lettonia avrebbero lo spazio fiscale per produrre almeno il 40% del loro fabbisogno annuo di tecnologie strategiche a zero emissioni
La transizione energetica si è affermata come il grande obiettivo economico del futuro. Sia la Cina che gli Stati Uniti, attraverso l’Inflation Reduction Act, sono entrati in una corsa verde alla quale l’Europa aspira a partecipare. “L’Europa è un leader mondiale nell’ambizione climatica e attira altri Paesi ai vertici internazionali. Il punto è che non ha avuto molto successo nel generare un parallelismo tra l’intenzione climatica e la creazione dell’industria che ci rende autonomi”, spiega Alejandro Labanda, direttore della Transizione ecologica di beBartlet.
L’OBIETTIVO UE SULL’AUTONOMIA ENERGETICA
L’Ue vuole intraprendere l’ambizioso progetto di costruire la propria autonomia energetica. Il Net Zero Industry Act (NZIA) include l’obiettivo che entro il 2030 l’Unione europea abbia la capacità di produrre almeno il 40% del suo fabbisogno annuo di tecnologie strategiche a zero emissioni.
INVESTIMENTI VERDI E SPAZIO FISCALE
Tuttavia, per raggiungere grandi obiettivi servono anche ingenti somme di denaro, e tra i 27 Paesi membri solo Irlanda, Danimarca, Svezia e Lettonia avrebbero lo spazio fiscale per raggiungerlo, secondo uno studio della New Economics Foundation.
L’osservatorio indica che solo questi Paesi – che rappresentano il 10% del PIL europeo – sarebbero in grado di raccogliere un margine di bilancio sufficiente per realizzare l’aumento del 3% degli investimenti verdi necessari per raggiungere gli obiettivi climatici più ambiziosi e, allo stesso tempo, restare al di sotto l’obiettivo di deficit europeo, fissato dalle regole fiscali al 3% e che probabilmente sarà applicato anche il prossimo anno.
QUASI TUTTI I PAESI UE IN DIFFICOLTÀ SUGLI OBIETTIVI
La Spagna, la Francia e altri 6 Paesi sono dall’altra parte della medaglia. Questo gruppo – che rappresenta il 34% del PIL europeo – non potrebbe aumentare gli investimenti nemmeno dell’1%, senza rompere la barriera del deficit del 3%. Aggiungendo Paesi come Italia, Grecia, Portogallo, Croazia e Ungheria – con debiti elevati e maggiori difficoltà di finanziamento che, peraltro, sarebbero costretti a ridurre il proprio debito nei prossimi anni – praticamente la metà dei Paesi Ue (il 50% della PIL europeo) non può permettersi un aumento dell’1% degli investimenti verdi senza infrangere le normative fiscali.
Secondo l’osservatorio economico, l’Europa avrebbe bisogno di circa 855.000 milioni di euro all’anno di capitali privati e pubblici per raggiungere lo scenario con la maggiore riduzione delle emissioni di gas serra, in linea con l’Accordo di Parigi di contenere le temperature di 1,5ºC e ridurre del 65% le emissioni di gas inquinanti entro il 2030.
Fino ad ora la spesa è stata insufficiente per raggiungere gli obiettivi fissati nel Green Deal europeo. Utilizzando i dati Eurostat, la BCE in un recente studio ha affermato che gli investimenti ambientali nell’Unione europea nel 2019 si sono attestati in media intorno allo 0,15% del PIL, rispetto al 3,7% annuo che sarebbe necessario per raggiungere gli obiettivi climatici della Commissione europea: 520 miliardi di euro, di cui il 45% sarebbe denaro pubblico.
MAGGIORI INVESTIMENTI, SENZA ROMPERE IL MERCATO UNICO
Bruxelles teme che una corsa ai sussidi verdi rompa il mercato unico europeo. La Germania e la Francia rappresentano praticamente l’80% degli aiuti derivati dall’invasione dell’Ucraina. La grande capacità di esborso delle due principali economie Ue ha destato i sospetti sia dei piccoli (ma ricchi) Paesi del Nord Europa, sia dei grandi (ma con poco spazio fiscale) Paesi del Sud del continente.
Per risolvere queste differenze, la Commissione europea sta cercando di rinnovare le regole fiscali europee, in modo che ci siano dei meccanismi che assicurino investimenti permanenti e una “crescita sostenibile”, che è “l’unica risposta per affrontare le sfide del futuro”, come ha affermato all’ultimo Forum Economico di Bruxelles il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni: “le attuali regole fiscali – ha spiegato Gentiloni – non hanno ridotto il debito, e gli investimenti non hanno smesso di diminuire. Servono delle regole che mantengano gli impegni, senza perdere la capacità di investire”.
Secondo Carlos Martínez Mongay, ex vicedirettore generale per l’Economia della Commissione europea, Bruxelles dovrebbe “prendere due piccioni con una fava”, creando “un meccanismo comunitario che finanzi questi investimenti, ma a condizione che i Paesi con deficit strutturali, sebbene inferiore al 3%, abbiano un periodo di tempo per i fondi ricevuti per colmare i divari del disavanzo strutturale. Alla fine del processo, gli Stati investiranno secondo le priorità Ue e alla pari con il mondo intero, ma con più margine per pareggiare i conti”.
Questo è il cavallo di battaglia di molti Paesi europei a Bruxelles: istituire dei meccanismi di finanziamento europei permanenti che consentano all’Ue di fare gli investimenti necessari, senza impegnare più spesa pubblica di quella che gli Stati possono permettersi. In questo modo, la stessa crescita del Pil risolverebbe i problemi di indebitamento così ingombranti in alcuni Paesi come la Spagna, che secondo la Banca di Spagna ha un indice di indebitamento del 113,2%.
Per alimentare la crescita economica associata e la generazione di un settore industriale che produce ambizioni europee, l’investimento pubblico è essenziale per raggiungere l’inerzia nei settori ancora in fase di sviluppo. La stessa Commissione europea, nella bozza del Net Zero Industry Act (NZIA), stima che la metà delle emissioni di gas serra che si prevede di ridurre entro il 2050 dipende da tecnologie “che non sono ancora pronte per il mercato”. L’obiettivo delle istituzioni comunitarie è convertire l’industria verde in un’industria redditizia.