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Trivelle

Trivelle, se gli M5s nicchiano anche sul Pitesai

Bessi (Pd): bloccare l’upstream italiano significa rinunciare a una produzione che contribuisce con il 7% al fatturato Eni, con un conseguente effetto negativo anche sull’occupazione

Dopo la ‘sparizione’ del blocca trivelle dal Milleproroghe, gli M5s stanno pensando di inserire la norma in un provvedimento ad hoc come segnalato dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli. L’obiettivo è arrivare in fretta a un blocco totale visto che il 13 febbraio finirà la moratoria vigente finora.

IL GOVERNO SI IMPEGNA A BLOCCARE LE TRIVELLE IN MANIERA DEFINITIVA

Qualche giorno fa la commissione Ambiente della Camera ha accolto l’ordine del giorno collegato alla Manovra di Giovanni Vianello, membro M5S della commissione, odg con il quale il governo si impegna a bloccare in maniera definitiva il rilascio di nuovi permessi e concessioni per la prospezione, la ricerca e la coltivazione di idrocarburi sia in mare che in terra. In sintesi l’ordine del giorno ricalca i contenuti dell’articolo della proposta di legge depositata in Parlamento dallo stesso Vianello che prevede lo stop a tutte le nuove trivellazioni e ai nuovi air gun.

Lo stesso Vianello ha annunciato nei giorni scorsi un emendamento per prorogare il Pitesai. Il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee cioè la mappatura dell’Italia che stabilisce dove è possibile trivellare e dove no e che va adottato con decreto del ministro dello Sviluppo economico di concerto con il ministro dell’Ambiente previa valutazione ambientale strategica. Il documento, insomma, che dovrebbe indicare i tempi e i modi di dismissione e rimessa in pristino dei luoghi della installazioni petrolifere che abbiano cessato la loro attività.

Ma sono passati due anni e ancora il piano latita. E il tempo stringe, salvo appunto ulteriori norme di proroga o di stop definitivo, perché il decreto semplificazioni dava tempo fino al 13 agosto 2020 termine poi prorogato al 13 febbraio 2021 con il Milleproroghe dello scorso anno.

QUANTI SONO I PERMESSI VIGENTI

Attualmente sono vigenti 42 permessi di ricerca di idrocarburi in terraferma, 21 permessi di ricerca nel sottofondo marino, 113 concessioni di coltivazione in terraferma e 66 concessioni di coltivazione nel sottofondo marino. La regione Sicilia è in prima posizione e conta 6 permessi di ricerca e 14 concessioni di coltivazione. Le altre sono nell’Adriatico, tra Marche e Abruzzo. Poi in Calabria,, in Salento. Mentre fino ad agosto erano almeno 90 i permessi per la ricerca di idrocarburi che potrebbero riprendere il percorso di approvazione a distanza di due anni dallo stop voluto dall’allora governo gialloverde.

L’INTERROGAZIONE M5S A PATAUANELLI

Nel frattempo è stata rivolta al ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, un’interrogazione strettamente correlata con la mancata proroga delle scadenze del Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI).

Il senatore M5S Arnaldo Lomuti ha chiesto di sapere in sostanza “quale sia lo stato di avanzamento per l’approvazione del PiTESAI” e se si sta valutando di disporre l’opportuna proroga dei termini della moratoria in scadenza nel 2021”. In un’altra interrogazione indirizzato al ministro dell’Agricoltura Teresa Bellanova, Lomuti ha invece chiesto se l’esponente di IV era a conoscenza “di quante aziende agricole e di trasformazione, e quanti allevamenti chiudono le loro attività nelle aree estrattive in Basilicata, perché il petrolio genera anche diffidenza tra i consumatori”.

BESSI: URGENTE DEFINIRE UN DOPO COVID SUL GAS MADE IN ITALY

“Le Relazioni sulla politica dell’informazione (i servizi d’intelligence dello Stato, ndr) per la sicurezza di questi anni segnalano criticità sulla protezione delle nostre infrastrutture di approvvigionamento di fonti energetiche, per garantire la continuità dei flussi al nostro Paese che, come è noto, importa dall’estero la stragrande maggioranza delle risorse”, ha detto a ENERGIA OLTRE Gianni Bessi, consigliere regionale dell’Emilia Romagna per il Partito Democratico e autore di ‘Gas naturale. L’energia di domani (Innovative Publishing, 2018)’ e di ‘House of Zar. Geopolitica ed energia al tempo di Putin, Erdogan e Trump’ (Goware, 2020).

Secondo Bessi “quindi diventa ancora più urgente definire nel ‘dopo Covid-19’ in modo chiaro e univoco se il nostro Paese intende puntare o meno sul gas naturale Made in Italy, tenendo conto che nel 2019 ha consumato circa 70 miliardi di metri cubi di oro azzurro, importandone oltre il 90% dall’estero. Sul piatto – ha aggiunto – c’è una questione annosa, che è più volte più che mai attuale: cosa intendiamo fare delle nostre risorse nazionali, a km zero, che vengono estratte in totale sicurezza e che entrano ancora nella nostra rete metanifera, una delle più estese d’Europa e del mondo. Senza contare che lo stallo attuale provocato dalla moratoria sta mettendo in ginocchio il settore energetico italiano e, soprattutto, la filiera della manifattura industriale a esso collegata, a cominciare anche da quella chimica”.

DANNI PER ECONOMIA E OCCUPAZIONE

“Un esempio per tutti: le attività di upstream di Eni, cioè quelle a monte della commercializzazione delle risorse energetiche, in Italia danno lavoro a circa 5mila persone sugli oltre 20 mila dipendenti del cane a sei zampe. Senza contare l’indotto della manifattura e dei servizi accessori – ha spiegato Bessi -. La produzione di idrocarburi Eni in Italia è dati bilancio 2018 il 7% della produzione totale dell’azienda, grazie alle aree di produzione dell’Adriatico, della Basilicata e della Sicilia. In questo contesto è utile sottolineare che nel ‘panel’ dei 50 Paesi in cui Eni estrae gli oltre 1800 kboe/day di Oil and gas solo Egitto e Libia, con il 16%, e Angola e Kazakistan, con l’8%, hanno una produzione superiore a quella del nostro Paese. Questo – ha aggiunto – a conferma che siamo un Paese produttore di idrocarburi, in particolare di gas naturale. O almeno lo siamo per Eni di cui lo Stato tramite il Mef e Cdp ha circa il 30% di azioni. Un altro dato indiscutibile è che la divisione exploration and production è quella che massimizza la redditività di Eni e che garantisce centinaia di milioni alle casse dello Stato. Va ricordato, visto che il governo ha da poco rinnovato cda dell’azienda”.

“Insomma, bloccare l’upstream italiano significa rinunciare a una produzione che contribuisce con il 7% al fatturato Eni, con un conseguente effetto negativo anche sull’occupazione. Il danno per Eni, per le casse dello Stato e per l’Italia è evidente. E visto che le importazioni continueranno, anzi ahimè aumenteranno visto le velleità dichiarate chi ci guadagnerà sarà Gazprom (vedi Putin) o i Qatarioti. La domanda è: chi paga?”, ha concluso Bessi con una domanda retorica che rimanda evidentemente ai cittadini.

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