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Gas

I nuovi rischi per l’indipendenza energetica degli Stati Uniti

Raggiungere l’indipendenza energetica, per gli Stati Uniti e non solo, significa aggiornare le infrastrutture e renderle resilienti al nuovo contesto climatico e cyber

Non è raro che si parli di “indipendenza energetica” per descrivere la situazione degli Stati Uniti: ad oggi sono i più grandi produttori di petrolio e di gas naturale al mondo; nel 2020, per la prima volta dal 1952, hanno anche esportato più greggio di quanto ne abbiano importato. Parlare di “indipendenza” è però controverso, perché induce a pensare che gli Stati Uniti siano diventati un sistema autosufficiente, chiuso a tutti gli altri e al riparo dalle grandi perturbazioni del mercato petrolifero.

Non è così: il paese continua ad importare greggio per le proprie raffinerie, innanzitutto; le mosse dei produttori mediorientali, poi, continuano ad avere degli effetti sui prezzi americani dei carburanti. Lo scorso aprile la segretaria all’Energia Jennifer Granholm telefonò al ministro del Petrolio saudita per – ufficialmente – “riaffermare l’importanza della cooperazione per garantire fonti di energia abbordabili e affidabili per i consumatori”; poco dopo il cartello dell’OPEC decise di allentare i tagli all’output.

Gli Stati Uniti non sono indipendenti sull’energia, ma sicuramente ci si sono avvicinati molto nei quasi cinquant’anni successivi alla crisi del 1973, quando l’OPEC impose un embargo delle esportazioni di petrolio verso i paesi occidentali. E ci si sono avvicinati grazie ad un forte aumento della produzione domestica di petrolio e gas shale e ad una maggiore installazione di impianti eolici e solari.

UNA INDIPENDENZA FRAGILE?

Si tratta però di un’indipendenza fragile, come ha scritto Clifford Krauss sul New York Times prendendo spunto dall’attacco informatico subìto di recente dall’oleodotto Colonial Pipeline da parte di un gruppo di hacker: gli americani nel Sudest, presi dal panico, hanno affollato le stazioni di servizio per fare scorte di carburante. Ma Krauss sottolinea anche l’effetto dei cambiamenti climatici sulla rete elettrica, ricordando le interruzioni di corrente in California innescate dal caldo estremo della scorsa estate e i più recenti blackout in Texas a seguito della tempesta di gelo.

Daniel Yergin, storico dell’energia e autore di The New Map, ha detto che “otto presidenti volevano l’indipendenza energetica, e ora che l’abbiamo raggiunta abbiamo una resilienza maggiore rispetto al mercato petrolifero globale. Ma la resilienza”, ha aggiunto, “è ancora una questione di come opera il sistema in condizioni di stress, sia che si stia parlando di condutture o di energia elettrica”.

I problemi del Colonial Pipeline, appunto, non hanno niente a che vedere né con una qualche crisi in Medio Oriente né con una produzione energetica insufficiente da parte degli Stati Uniti. Però il panic buying, l’impulso di correre ad acquistare benzina – riempiendo taniche o anche buste di plastiche – per paura di rimanerne senza, ha effettivamente provocato una carenza di rifornimenti e fatto salire i prezzi anche fino a 20 centesimi per gallone. Colonial Pipeline, l’azienda privata che gestisce l’oleodotto, ha ripristinato il servizio, ma ci vorrà ancora qualche giorni prima che la situazione ai distributori di benzina torni alla normalità.

RESILIENZA CLIMATICA E CYBER

Le società energetiche subiranno sempre di più le pressioni di governi ed investitori perché si dotino di difese adeguare contro i cyberattacchi. Ma si tratta di vulnerabilità che, scrive il New York Times, non possono essere risolte in tempi brevi, specie dopo anni di investimenti insufficienti. Vale anche per le reti elettriche, che – come dimostrano i casi di Texas e California, due degli stati più popolosi d’America – non sono preparate per resistere agli eventi metereologici estremi, che si faranno sempre più frequenti per via del cambiamento climatico, minacciando l’economia e la salute pubblica. A livello nazionale, le interruzioni di corrente causate dal meteo sono aumentate di due terzi dal 2000, stando ai dati del dipartimento dell’Energia.

Aggiornare le infrastrutture energetiche – condotte, centrali elettriche, linee di trasmissione, stazioni di servizio – e le aziende che le gestiscono al nuovo contesto climatico e informatico non sarà semplice e richiederà grandi investimenti, sia privati che pubblici.

INDIPENDENZA ENERGETICA E INNOVAZIONE TECNOLOGICA

Krauss scrive che la ricerca dell’indipendenza energetica non ha mai seguito una linea retta – cinquant’anni fa gli Stati Uniti decisero di bruciare più carbone per diminuire le importazioni petrolifere, nonostante l’inquinamento maggiore –, ma ha spesso portato all’innovazione. Il fracking ad esempio, ovvero la tecnica che permette di fratturare i depositi di scisto ed estrarre idrocarburi, ha fatto dell’America un grande produttore di greggio e gas e l’ha rafforzata sia in patria che all’estero: i prezzi domestici dell’energia si sono abbassati; e Washington può competere con la Russia per le esportazioni di gas in Europa e può sanzionare il petrolio iraniano e venezuelano senza temere grossi contraccolpi.

Eppure, il boom dello shale ha reso alcune parti del paese più vulnerabili. La costa est, innanzitutto: molte delle raffinerie in quest’area hanno dovuto chiudere perché non riuscivano a sostenere la concorrenza con quelle sulla costa del Golfo, più avanzate e in grado di accedere direttamente alle riserve di petrolio dal Texas, abbondanti ed economiche. Questa situazione ha portato una sola condotta – il Colonial Pipeline, che collega le raffinerie sul Golfo fino al New Jersey – a soddisfare quasi la metà del fabbisogno di combustibile della costa orientale.

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